Come appendere il Demiurgo alla Teoria delle Corde

Home Filosofia e Religione Come appendere il Demiurgo alla Teoria delle Corde
Come appendere il Demiurgo alla Teoria delle Corde

di Gianfranco Costa.

C’è una frase emblematica in un articolo a firma Silvano Danesi (Il Maestro è l’essere umano etico): “il Maestro ha conosciuto sé stesso e vive nei due mondi”. Provo ad interpretare questa affermazione allargando quanto più possibile la visuale e, per farlo, mi avvalgo di due tracce complementari: la coscienza e la prossimità.

Oltre l’ovvia coscienza di sé, cosa connaturata alla nostra specie animale, il conoscere sé stesso è un ribollire di convergenze tra esperienza, controllo e interpretazione di ciascun elemento costituente ciò che osserviamo popolare lo spazio-tempo, ovvero gli eventi.

Se in uno spazio euclideo a due dimensioni ciascun punto è individuato da una coppia di valori, le sue coordinate, nel nostro spazio quadridimensionale ogni posizione identifica un evento, perché una delle sue coordinate è il tempo. L’esperienza e l’interpretazione di ciascuno di questi eventi nel tempo accresce la coscienza, arricchendola di significati e rendendola capace di relazionare gli accadimenti tra loro e con gli archetipi. Tale coscienza, per così dire arricchita dalla disponibilità a porsi domande e tentare di formulare possibili risposte, trasforma l’individuo in maestro. Questo in termini generali. Però intravedo un ulteriore elemento chiarificatore nel concetto di prossimità, con la seguente accezione: essere prossimo agli archetipi.

Riflettevo su questo in relazione alle tre entità della tradizione druidica alle quali l’articolo fa riferimento, ovvero Ceugant (il vuoto quantistico), Abred (lo spaziotempo gravitazionale) e Gwynfyd (il Cerchio della felicità).

È come se ciò che rende Maestro sia vivere coscientemente nell’Abred, vivendo questa prossimità al Gwynfyd, ovvero a questo contesto fatto di essenze, dove le individualità, ormai senza più la pesantezza della fisicità ma già arricchite per l’aver sperimentato nel mondo fisico, possono riavvicinarsi liberamente all’Origine.

Mi pare di percepire che la chiave di lettura sia proprio questa coscienza della prossimità.

Gwynfyd è prossimo all’Origine inaccessibile (Ceugant), così come Abred è prossimo a Gwynfyd. Prossimo non vuol dire comunicante, le tre entità mai si toccano, però in qualche forma comunicano tra loro, l’una comprende l’altra reciprocamente, appunto per prossimità, attraverso i simboli. Saperli interpretare con valenza di archetipi permette al Maestro di essere cosciente di questa comunicazione essenziale tra Origine (Arché), Essenze (anime) e fisicità contestuale (realtà sensoriale percepibile). In questo senso il Maestro vive nei due mondi (Abred e Gwynfyd), o per lo meno così mi pare di poterlo interpretare: è cosciente di percepirli prossimi.

E il Demiurgo, anche lui è interpretabile come Maestro che vive in due mondi? Seguendo con le dovute proporzioni gli stessi concetti, in questo caso le due realtà interessate sarebbero Ceugant, il vuoto quantistico originale e Gwynfyd, il Cerchio delle essenze. Chissà se esiste proporzionalità o ricorsione frattale anche in questo, cioè se questa è la relazione tra Demiurgo e Maestro, come l’uno specchio – sebbene remoto – dell’altro…

Altra frase intrigante: “L’esistenza dell’essere umano in Gwynfyd, pertanto, avrà una forma. Quale essa sia non è specificato […]”. Con rispetto a questo, credo non si tratti di cercare banalmente una risposta nella geometria. Il concetto di “forma”, relazionato con una situazione in cui non esiste la materia, dove esistono individualità, non corpi, credo debba interpretarsi in senso figurato. In passato ho già avuto modo di proporre una domanda: per analogia possiamo definire l’idea come forma del pensiero? Trovo molto più adeguata perciò la definizione di forma dell’essere umano nel Cerchio della Felicità come “grumi di quanti di coscienza”, come riportato in un altro articolo (L’Olos, immaginando, crea Gwynfyd).

Insomma sembra esserci una certa relazione tra Fondamento, coscienza e consapevolezza del limite dell’esistenza umana. A tal proposito guidava la riflessione un altro articolo già pubblicato: L’algoritmo, la Matrix e i Fratelli della Cybercosta, dove ci si chiede “E’ possibile […] andare oltre la coscienza dell’Io, racchiuso nella matrix, ed espanderla verso il Fondamento, ossia tenderla verso il Sé, il seme essenziale dell’essere umano, che del Fondamento è frattale? Possiamo, in altre parole, essere etici, ossia tenderci verso “l’abitare presso” l’Infinita Informazione, presso l’origine? Possiamo andare oltre la matrix? […] Oggi il tema si ripropone in modo urgente e drammatico, perché la matrix artificiale si pone come un nuovo leviatano capace di mettere in discussione la libertà”.

In altri termini credo che la domanda sia una maniera alternativa per porre la stessa questione: in che consiste la comunicazione tra questi tre cerchi, Ceugant, Gwynfyd e Abred?

Il primo passo evidentemente è capire che bisogna porsi la domanda, essere cioè disposti a cercare la pietra filosofale, ovvero l’innesco della trasformazione del nostro Io cosciente perché apra i suoi orizzonti verso altre possibili percezioni. Credo cioè che solo se vogliamo, se prendiamo coscienza della necessità di farlo, il nostro Sé potrà a sua volta disporci ad ascoltare. Andare oltre la matrix, ossia scegliere la pillola rossa è impegnativo, perché richiede ricerca; è difficile, perché richiede costanza; è faticoso, perché richiede un continuo sforzo ad uscire dai propri limiti, almeno tendenzialmente. È superarsi, crescere, evolvere. Io credo che almeno un tentativo valga la pena farlo. Chiaro, solo a patto che il nostro personale obiettivo sia quello di essere esseri liberi.

Nel secondo dei tre articoli si può leggere che “L’Olos immaginando crea”. Questo è tema che meriterebbe approfondimenti dedicati, mi limiterò a esprimere poche idee sul concetto di immaginazione, ovvero creare immagini.

Quelle che siamo abituati a definire come immagini sono forse solo il risultato della nostra coscienza che decide di osservare. L’osservazione causa il collasso della funzione d’onda di ogni particella, dunque osservando trasformiamo delle onde, ovvero vibrazioni, in particelle percepibili. Queste particelle (in realtà solo una loro piccolissima parte, quelle corrispondenti alle frequenze visibili ai nostri occhi) sono rilevate dai nostri sensori, che le trasformano in segnati elettrici trasmessi successivamente al cervello, che le interpreta. Voglio dire che quella che definiamo come “realtà” non è altro che un’elaborazione algoritmica dell’interazione di quelle onde collassate in particelle di cui sopra.

Sappiamo che la luce (se non perturbata gravitazionalmente) viaggia in linea retta, dunque osservando la luce di una candela con i nostri occhi dovremmo percepire la fiamma in basso e la base in alto (vedi figura, cortesia di Wikipedia commons), eppure questo non accade. Perché? Perché il nostro cervello opera la trasformazione, cioè rovescia l’immagine per farcela percepire più familiare. Una ricostruzione attraverso algoritmi utilizzati dal nostro cervello. Difficile definire tutto questo come realtà, non vi pare?

Ma questa è solo una particolare forma di immagine, ovvero quella prodotta attraverso l’interazione di fotoni con i nostri occhi. Più che immaginare, questo è vedere.

Col termine immaginare ci si riferisce ad altri tipi d’immagine, non derivanti da interazioni fotoniche. Per esempio quelle comunque create dal nostro cervello ma non per interazione con l’intorno, quanto piuttosto relazionate con la memoria. Ricordiamo, tra l’altro, per immagini. Oppure quelle relazionate con la fantasia: “vediamo” immagini di oggetti e situazioni che i nostri occhi non hanno mai visto, che non abbiamo sognato e che nemmeno ricordiamo. Oppure quelle immagini che compongono i sogni: quanti di coscienza organizzati (Pillola rossa, a piccole dosi).

Ad ogni modo appare evidente la relazione, se si vuole metaforica, tra come comunicano tra loro i tre cerchi della tradizione druidica e la varie forme di immagini che sperimentiamo quotidianamente: sono forme di comunicazione che si stabiliscono tra archetipi, essenze ed esperienze reali.

Tornando alle tre entità costitutive dell’esistente secondo la visione druidica, queste mi riportano alla mente il concetto di “altre dimensioni”. Relaziono questo con un’altra definizione relativa al Demiurgo, ovvero l’unico essere che può accedere a Ceugant, cioè al vuoto quantistico iniziale, all’Origine. Il titolo stravagante e a dir poco curioso che ho dato a questo scritto, merita d’essere giustificato.

In particolare: “Il Demiurgo è [Triade XLVI] essere infinito in lui stesso, finito in rapporto al finito e co-unito con ogni stato dell’esistenza in Gwynfyd.  Ogni stato dell’esistenza in Gwynfyd è pertanto co-esistente con il Demiurgo”. Cerco di procedere per gradi.

– Infinito in lui stesso

Questo lascia pensare per esempio agli infiniti numeri che esistono tra due interi. Mi fa pensare a un tipo di infinito cioè che però esiste in una dimensione non percepibile sensorialmente. La propria teoria delle corde, ovvero il tentativo di riunificare le quattro forze fondamentali della natura (tre considerando l’elettrodebole) in un unica formulazione, definisce qualcosa del genere. Nonostante il poco che so rispetto a questa teoria, mi sovviene il fatto che, per potersi definire, la stessa utilizza undici dimensioni, dieci spaziali e una temporale, all’interno delle quali le proporzioni sono infinite ma al di fuori risultano impercettibili. Perché non percepiamo le ulteriori sette dimensioni nella nostra “realtà”? Perché queste sono molto, molto piccole rispetto alle nostre scale consuete. All’interno di ciascuna di loro esiste l’infinitamente grande, però per noi che viviamo all’esterno di quelle extra-dimensioni, queste ci appaiono impercettibili perché infinitamente piccole. In una di queste, potrebbe esistere il Demiurgo, infinito in lui stesso?

– Finito in rapporto al finito

Anche questa definizione s’inquadrerebbe con una realtà multidimensionale come quella descritta dalla teoria delle corde, perché sebbene infinito all’interno della sua dimensione, sarebbe definibile (cioè “finito”) se visto da un’altra delle possibili dimensioni, visto che queste appaiono come minuscole alle nostre scale.

  • Co-unito con ogni stato dell’esistenza

Quadra perfettamente: la dimensione nella quale esiste, nonostante resti del tutto al di fuori delle nostre percezioni sensoriali, è totalmente integrata nell’insieme di tutte le altre dimensioni che descrivono la stessa realtà, dunque qualunque elemento in ciascuna dimensione è parte del tutto.

Sembra proprio che il Demiurgo, quello che a me personalmente piace definire come Criterio, non confligga con la nostra fisica (del tutto teorica) attuale. Sarà davvero così?

Leave a Reply

Your email address will not be published.