Leonardo da Vinci, in un’immagine divenuta famosa, ci consegna il segreto dell’essere umano.
Se tentiamo di decifrare l’immagine dell’Uomo di Vitruvio, possiamo notare anzitutto la compresenza di due immagini: l’una inscritta in un cerchio e l’altra inscritta in un quadrato.
Il cerchio è il simbolo dell’infinito e, con questa parte dell’immagine Leonardo ci consegna l’aspetto animico dell’essere umano, ossia il suo essere inscritto in un corpo di luce.
Il quadrato è il simbolo dello spazio tempo, della linearità del tempo e dello spazio, è conseguentemente dell’essere umano inscritto nella realtà terrena.
L’essere umano, pertanto, è contestualmente infinito e finito.
Leonardo, come è noto, scriveva in modo speculare.
Questo suo modo di scrivere non è un vezzo o un modo per criptare i suoi pensieri, al fine di eludere la censura del tempo, ma costituisce la chiave della sua immagine che, se vista allo specchio e confrontata con quella evidente, ci invita a tenere in considerazione la modalità con la quale l’essere umano percepisce.
Nell’immagine che appare evidente ai nostri occhi, l’Uomo di Vitruvio appoggia tangenzialmente il piede sinistro, sia nel cerchio, sia nel quadrato.
Il piede sinistro corrisponde all’emisfero destro del cervello, ossia a quella parte che riguarda l’intuizione.
Se guardiamo l’immagine specularmente, il piede che si appoggia tangenzialmente al cerchio e al quadrato è quello destro.
Il piede destro corrisponde all’emisfero sinistro, ossia a quella parte del cervello che riguarda la razionalità.
Il messaggio pare essere che “vedere” è necessariamente attivare i due emisferi, dando alla razionalità e all’intuizione la stessa dignità cognitiva.
In tutte e due le immagini le mani toccano sia il quadrato, laddove si interseca con il quadrato, sia il cerchio, con il dito medio.
Il dito medio era dai latini detto “ditus impudicus”, in quanto rappresentava il pene.
Il termine greco per designare il dito medio, in Aristofane è detto dattilo, ma in greco antico era anche καταπύγων (katapygon) che voleva dire “lascivo, libidinoso” per indicare solitamente un cinedo (cioè un giovinetto compiacente con gli omosessuali); si evince pertanto che il termine, accompagnato dal gesto, era un vero e proprio insulto di genere a sfondo sessuale.
Il gesto è rimasto con significati simili anche in tempi attuali, ma è difficile pensare che Leonardo da Vinci accennasse all’omosessualità ed è più credibile che dietro alla posizione del dito medio si nascondesse altro.
Nell’opera Le Nuvole troviamo la citazione di un ‘dito medio’ da parte del commediografo Aristofane (V sec. a.C.), il quale, nella sua opera, mette in scena un personaggio (Strepsiade) che gesticola con il ditus impudicus, giocando sul significato ambiguo della parola ‘dattilo’ che alludeva sia ad una unità metrica, sia alla lunghezza anatomica del fallo.
Il dattilo è un’antica unità di misura equivalente a 1/24 di cubito, cioè a 0,0185 metri, ma è anche una misura poetica.
Il dattilo (in greco antico: δάκτυλος, dáktylos) che significava «dito», a causa della somiglianza dello schema — ∪ ∪ alla forma del dito, è un piede della poesia greca e latina e lo è anche di quella italiana.
Il dattilo si compone di un’arsi, di una sillaba lunga e di una tesi, di due sillabe brevi; di conseguenza appartiene al génos íson (in quanto il rapporto tra arsi e tesi è nella proporzione 1 a 1) e il suo ritmo è discendente.
La sua durata è di quattro morae (unità di suono che determinano la quantità di una sillaba, la quale a sua volta, in alcune lingue, determina l’accento); può essere in genere liberamente sostituito dallo spondeo (— —) la cui durata è uguale e il cui ritmo può essere discendente o ascendente a piacere.
L’arsi e la tesi sono nella metrica classica rispettivamente l’elevamento e l’abbassamento della mano (o del piede o del dito), che stanno a segnalare l’inizio di una serie ritmica quando si scansiona un verso (e quindi a scandirne gli accenti prosodici).
I versi dattilici più usati sono l’esametro e il pentametro.
Troviamo il dattilo in Dante Alighieri. “Tèrmine fìsso d’ettèrno consìglio”.
(Par., XXXIII, 3)
E’ l’invocazione di Bernardo di Chiaravalle:
«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio.
In Dante l’endecasillabo dattilico (+––+––+––+–) ha accenti di 1ª-4ª-7ª-10ª.
Troviamo il dattilo anche in Cavalcanti: “fatta di gioco in figura d’amore” (Cavalcanti, Rime, XXX, 21).
Dante e Cavalcanti sono Fedeli d’Amore e, secondo alcuni autori, lo era anche Leonardo da Vinci.
Dei Fedeli d’Amore ho trattato nel mio: “I Fedeli d’Amore alla corte di Artù” (ilmiolibro.it), al quale rinvio chi volesse approfondire l’argomento.
Il dattilo lo troviamo anche in: “Donne ch’avete intelletto d’amore” (Dante, Vita Nuova, XIX, 1).
Il sonetto: “Donne che avete intelletto d’amore” e l’altro: “Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia, quand’ella altrui saluta”, sono veri trattati iniziatici in cui è nascosto un segreto pensiero.
I Fedeli d’Amore nei loro versi parlano del “Vero amore”, ossia di una verità a loro nota che in alcuni misteriosi versi del Purgatorio, Dante, usando la lingua d’Oc (la lingua dei Trovatori), lascia intravedere: “…Tan m’abbellis vostre cortes deman, qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan ; Consiros vei la passada folor, e vei jausen lo joi qu’esper, denan. Ara vos prec, per aquella valor que vos guida al som de l’escalina, sovenha vos a temps de ma dolor!”.
Tanto gradita mi riesce la vostra cortese domanda che io non voglio né posso tenermi a voi celato. Io sono Arnaldo che piango e vado cantando; pensoso considero le passate follie, ma vedo, giubilante, davanti a me la gloria nella quale spero. Ora vi prego per quel valore che vi guida al sommo della scala che, a tempo opportuno, vi sovvenga il mio dolore! (purgatorio, c. XXVI)”.
L’Arnaldo del Purgatorio è Arnaldo Daniello (Arnaut Daniels), un trovatore provenzale vissuto nella seconda metà del XII secolo.
Le opere di Dante e dei suoi contemporanei “Fedeli d’Amore” ci forniscono le chiavi di comprensione di una linea di pensiero che è il frutto dell’incontro di culture diverse, che hanno in comune la libera conoscenza adogmatica della Sapienza divina (Rosa), raggiungibile con un percorso iniziatico il quale, per quanto condiviso, presuppone una tensione conoscitiva individuale (Amore) capace di condurre l’adepto (Amante) dalla Croce (la materialità che fissa lo Spirito nello spazio tempo) alla Rosa, ossia la Sapienza divina, qualle che per gli Egizi era Sa o Sia.
La Donna, per i Fedeli d’Amore, è la Sapienza divina, Sophia. La rosa è anche Iside, così come spiega Apuleio.
La linea di pensiero dei Fedeli d’Amore ha dei riferimenti essenziali in Federico II di Svevia e nella sua “Magna Curia”, nella Provenza e nell’Aquitania dei Trovatori, eredi della cultura basca, nei Minnesanger, in Severino Boezio, nella poesia dei mistici arabi e nella Champagne di Chrétien de Troyes, che ripropone, con la “Materia di Bretagna”, l’antica cultura druidica.
Tornando al dito medio dell’Uomo di Vitruvio, è ora ragionevole pensare che Leonardo Da Vinci abbia voluto indicare la sua appartenenza al mondo poetico dei Fedeli d’Amore e usando il dito “dattilo”, con l’arsi e la tesi a significare rispettivamente l’elevamento e l’abbassamento della mani, ci abbia detto che ciò che è in alto e come ciò che è in basso e che l’essere umano si abbassa e si alza tra un mondo immaginale e un mondo corporale nei quali è compresente.
Come può l’essere umano conoscere questa sua compresenza nel mondo immaginale, che Hillman chiama psiche e che possiamo definire “corpo di luce” e nel mondo reale (corporale, terreno)?
Leonardo da Vinci, con il suo scrivere a specchio, sembra indicarci la via dell’utilizzo del piede sinistro e del piede destro, ossia dell’utilizzo contemporaneo dei due emisferi, con lattivazione della pineale, il terzo occhio, l’occhio della veggenza, che ha un rapporto con l’illuminazione.
Un rapporto che ci riporta alla sapienza druidica, giunta ai Fedeli d’Amore attraverso i Trovatori. Il Druida è poeta, quindi conosce la parola di potere e usa la fis, la visione per prevenire gli avvenimenti. Dru-vid, colui che ha la conoscenza.
La radice *vis dà saggio, sapiente, da *vistu, forma che si converte in vid = sapere, conoscenza ( vecchio irlandese fiss e irlandese fios). A *vis si oppone duí, ignorante, incolto, da du-vis, che non sa (anche *an-vis).
Nella Razzia delle mucche di Cooley, la regina Medb interroga una veggente riguardo al destino del suo esercito. “Qual è il tuo nome?” chiede Medb alla fanciulla. “Fedeln, profetessa del Connaught è il mio nome”, dice la fanciulla. “Donde vieni?” chiede Medb. “Dalla Scozia, dopo aver appreso colà la scienza dei Filid” dice la fanciulla.”Hai la scienza dell’illuminazione?”, chiede Medb. “Si, in verità”, dice la fanciulla. “Allora, guarda per me come andrà la mia spedizione”. [i]
Nell’Uomo vitruviano Leonardo ha indicato numerose proporzioni, come mostra l’esempio della misura che va dai piedi alla sommità del capo, che è uguale all’estensione delle braccia distese nel quadrato.
In questa riflessione sull’Uomo vitruviano non è mia intenzione mettere in evidenza tutte le proporzioni, se non indicarne le molte possibilità indicata dallo stesso Leonardo con le linee inserite nel suo disegno.
Credo sia interessante valutare le due croci che sono formate nel cerchio e nel quadrato.
Nel quadrato è formata una croce latina immissa, con le proporzioni di un terzo e due terzi.
La croce latina immissa è il simbolo della crocifissione dell’essenza umana nello spazio tempo, ossia nella corporeità.
La croce formata dal corpo dell’Uomo vitruviano nel cerchio, la crux decussata, è simile alla croce di Sant’Andrea, la Bratach na h-Alba, che richiama il martirio di Sant’Andrea, patrono della Scozia.
Per comprendere il messaggio segreto di Leonardo è utile il suggerimento di Fulcanelli.
“Per noi – spiega Fulcanelli – art gotique non è altro che una deformazione ortografica della parola argotique, la cui omofonia è perfetta, conformemente alla legge fonetica che regola la cabala fonetica in tutte le lingue e senza tener conto alcuno dell’ortografia. La cattedrale, quindi, è un capolavoro d’art goth o d’argot. Dunque i dizionari definiscono la parola argot come «il linguaggio particolare di tutti quegli individui che sono interessati a scambiarsi le proprie opinioni senza essere capiti dagli altri che stanno intorno». E’, quindi, una vera e propria cabala parlata. […]. Tutti gl’Iniziati si esprimevano in argot, anche i vagabondi della Corte dei Miracoli, col poeta Villon alla loro testa, ed anche i Frimasons, o framassoni del medioevo, «che costruivano la casa di Dio», ed edificavano i capolavori argotiques ancora oggi ammirati”.[ii] L’arte gotica, aggiunge Fulcanelli, “è l’art got o cot (Χ°), l’arte della Luce e dello Spirito”. L’argot, aggiunge Fulcanelli “è una delle forme derivanti dalla Lingua degli Uccelli, madre e signora di tutte le altre, lingua dei filosofi e dei diplomatici”.[iii]
Il nome della croce detta di Sant’Andrea nei testi antichi è “decussata”, sia perché somiglia ad una croce greca invertita, sia dalla sua rassomiglianza con il decussis X, segno per il numero 10 in latino.
Il X (dieci) può vedersi come la giunzione di un V (discesa celeste) e di una Λ (elevazione terrestre). Ritorna il tema del dito medio.
Questa croce, che ha la forma del nostro X , è il geroglifico, ridotto alla sua semplice espressione, delle radiazioni luminose e divergenti emanate da un focolare unico. Il fuoco semprevivente di Eraclito, il tapas vedico. Appare dunque come il grafico della scintilla e noi siamo scintille di luce della luce primordiale.
“Il X – scrive Fulcanelli – traduce anche il sale ammoniacale dei saggi, o sale di Ammon, cioè dell’ariete, che si scriveva precedentemente con più verità armonia, perché realizza l’armonia, l’accordo dell’acqua e del fuoco, che è il mediatore per eccellenza tra il cielo e la terra, lo spirito ed il corpo, il volatile e il fisso. È ancora il segno, senza altra qualificazione, il sigillo che rivela all’uomo, con alcuni lineamenti superficiali, le virtù intrinseche della prima sostanza filosofale. Infine, X è il geroglifico greco del vetro, materia pura tra tutte, ci garantiscono i Maestri dell’arte, e quella che si avvicina più alla perfezione. Il segno della croce, monogramma di Cristo di cui X di San’Andrea e la chiave di San Pietro sono due controparti di valore uguale esoterico, è questo segno capace di garantire la vittoria con l’identificazione certa dell’unica sostanza esclusivamente destinata alla fatica filosofale”. [iv]
Nel linguaggio ermetico degli alchimisti, dediti all’Opera, la rugiada celeste, ros, è l’anima, la vita metallica che dà vita ai corpi; è quella “magnesia”, “calamita filosofica” che ha la virtù attrattiva e che oggi potremmo definire luce come campo elettromagnetico, che attrae e forma la materia corporea.
La “magnesia” sorge dall’Occulta Fontana (Libethra) accanto alla quale c’è un’altra sorgente chiamata La Roccia.
“Ambedue – scrive Fulcanelli – scaturivano da una grossa roccia la cui forma assomigliava ad un seno di donna; di modo che l’acqua sembrava colare da due mammelle come se fosse latte. Ora, noi sappiamo che gli antichi autori chiamavano la materia dell’Opera la nostra Magnesia e che il liquore estratto da questa magnesia è chiamato Latte della Vergine”.[v]
La X ricorda il chiasmo: intreccio e trasformazione, che a sua volta richiama il chi-ro, ossia l’intreccio di due lettere dell’alfabeto greco, la ‘χ’ e la ‘ρ’ che insieme compongono il monogramma di Cristo. Il simbolo si compone di due grandi lettere sovrapposte, la ‘X’ e la ‘P’ che corrispondono, rispettivamente, alla lettera greca ‘χ’ (‘chi’, che si legge kh, aspirata) e ‘ρ’ (‘rho’, che si legge r).
Siamo grumi di informazione cosciente e terremoti di una realtà abissale (eventi), bagnati da una rugiada celeste: avatar di noi stessi nel mondo della materia; phosphoroi (Φωσφόροι), portatori di luce essenziale (informazione), attratti dalla magnesia nel crogiolo della vita, ossia nel crucibulum, il cui geroglifico alchemico è la croce[vi].
San Cristoforo, che porta Cristo ‘Χριστός’, oppure che porta oro Χρυσός è simbolicamente il corpo che porta la luce.
Oro, infatti, dal latino aurum e dall’antico greco ayròs, deriva dalla radice sanscrita hari, dal significato di raggio di luce (hirana=oro).
[i] Da Françoise Le Roux – Christian J Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig
[ii] Fulcanelli, Il mistero delle cattedrali, Mediterranee
[iii] Fulcanelli, Il mistero delle cattedrali, Mediterranee
[iv] Fulcanelli. Le Dimore Filosofali, Vol. I.
[v] Fulcanelli, Il mistero della cattedrali, Mediterranee
[vi] Vedi Fulcanelli, Il mistero della cattedrali, Mediterranee.
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