A parte l’iniziale, fisica e filosofia hanno molto in comune. In questi ultimi anni, più m’avvicino a questi mondi affascinanti, più me ne convinco. La storia è piena di aneddoti, riferimenti incrociati, testi divenuti fondamentali e studi approfonditi che lo documentano. Personalmente, dovendo preparare dei lavori specifici negli ultimi mesi, mi sono trovato ad approfondire in particolare da un lato alcune delle immagini più famose dell’antico Egitto e dall’altro il lavoro di due geni e amici, un fisico brillante poco convenzionale e un neurochirurgo estremamente creativo.
In entrambi i versanti, l’antichissimo e il moderno, è sorprendente osservare come la sapienza di diversi millenni or sono e la scienza degli ultimi decenni siano tanto vicine, seppur ognuna col proprio linguaggio e con stili, metodi e modi di esprimersi differenti e, a volte, apparentemente in conflitto tra loro.
In particolare stavolta mi è capitato di soffermarmi sul concetto di Uno. Tutto ciò che esiste nel nostro universo non coincide con tutto ciò che esiste in genere (per prima cosa magari esistono chissà quanti altri universi, come alcune recenti teorie sembrano suggerire). Sostanzialmente il Tutto è qualcosa che appartiene ad altra dimensione, al di là del nostro universo o di qualunque altro eventualmente esistente; non è fatto di materia, tempo ed energia. Quindi una cosa è riferirsi al Tutto, altra cosa all’Uno. Ma visto che a noi comuni mortali (comuni si fa per dire) non è concesso visitarne altri di universi, confinati come siamo in questo e senza possibilità (almeno per ora) di poterne uscire, nel linguaggio comune abbiamo a volte erroneamente considerato il Tutto e l’Uno come fossero sinonimi. Ho appreso che non è così: il Tutto è il Criterio, il Principio, l’Archetipo, l’Essenza auto-formante e non generata che è in sé capace di generare sé stessa ed anche l’universo, cioè l’Uno. L’Uno è più vicino alla Tetraktis pitagorica, a ciò che esiste senza concetti difficilmente definibili, come zero e infinito che i pitagorici odiavano, perché ritenuti imprecisi.
È una premessa dovuta, per evitare confusione circa quanto diceva David Bohm, una delle menti più aperte e geniali degli ultimi decenni, che si riferisce al Tutto con un’altra accezione, come vedremo, comunque in maniera assolutamente compatibile con questa premessa.
Fu prima di tutto un fisico ma quello che più stimo in lui fu la sua straordinaria apertura mentale. Oltre alla fisica, pilastro portante della sua formazione, si interessò approfonditamente anche di biologia, psicologia, filosofia, religione, arte e anche sociologia, nel senso che analizzò anche il possibile il futuro dell’umanità.
Quando la nuova fisica cominciò a dedicarsi all’estremamente piccolo, alle particelle subatomiche, le antiche, consolidate convinzioni della fisica classica cessarono di avere senso, almeno per quanto riguarda quelle infinitesime grandezze.
Bohm iniziò con le sue prime pubblicazioni all’università californiana di Berkeley, dove sviluppò uno dei suoi primi lavori a proposito del plasma, lo stato della materia gassosa che contiene alte densità di ioni positivi e di elettroni. Si sorprese notando che, a un certo punto, gli elettroni che inizialmente formavano il plasma, smettevano di agire individualmente e iniziavano a relazionarsi, a “interconnettersi” tra loro. Una delle sue dichiarazioni più intriganti consistette nell’affermare di avere avuto la sensazione di osservare un mare “vivo” di elettroni, una specie di organismo coerente.
In seguito divenne professore all’università di Princeton e fu lì che cominciò a manifestare le sue perplessità a proposito della fisica quantistica, in particolare rispetto all’interpretazione di Copenaghen. Proprio non gli andava giù il fatto che tutta la materia dovesse la sua esistenza a una serie di eventi casuali, a una sequenza di osservazioni fuori da ogni possibile predizione, capaci però di fare cambiare di stato a qualcosa che, in un certo istante si comporta in un modo e dopo un po’, in un altro. Doveva esserci una logica dietro questa apparente, casuale follia. Sapeva però di essere una voce fuori dal coro, così decise di sottoporre i suoi dubbi al proprio Einstein, con il quale iniziò a stabilire frequenti conversazioni. Alla fine i due si convinsero che fosse necessario un ulteriore approfondimento circa la fisica quantistica.
Pubblicò in quegli anni il suo “Quantum Theory” che purtroppo non ebbe seguito negli States a seguito delle sue idee politiche, per le quali fu perseguito dal maccartismo fondamentalista di quell’epoca; dovette andarsene, stabilendosi prima in Brasile, poi infine in Inghilterra.
In un impietoso riassumere, sono due le cose per le quali Bohm è ricordato: l’interpretazione non casuale della fisica quantistica e la teoria dell’ordine implicato.
Sulla prima, solo poche parole: la sua teoria confutava l’ipotesi di una casualità intrinseca nel comportamento delle particelle subatomiche. L’idea che queste fossero descritte da una funzione d’onda (Ψ, Psi) che avesse puro valore probabilistico non lo convinceva. La funzione collassa in uno degli stati sovrapposti che la caratterizzano quando viene osservata, cioè la cosiddetta particella si concretizza solo se casualmente osservata. Bohm invece introduce il concetto di “potenziale quantistico”, cioè attribuisce alla funzione d’onda un valore deterministico. Sarebbe cioè questo campo nascosto sottostante, il potenziale quantistico, a determinare il comportamento della particella. Di conseguenza esiste una continua relazione tra questo potenziale e le particelle che il campo determina. L’universo sarebbe dunque, sostanzialmente, relazione. Inoltre questa interazione non dipende dall’intensità del campo ma solo dalla sua forma. Questo spiegherebbe perché particelle anche molto distanti tra loro, cioè quando le intensità delle interazioni dirette sono piccolissime, possono comunque interagire in maniera praticamente istantanea, come nel caso dell’entanglement.
Fu proprio questo fenomeno fisico osservato quello che catalizzò le riflessioni di Bohm: particelle tra loro relazionate che, anche poste a grandi distanze, in qualche modo si relazionano istantaneamente tra loro (cambio del loro spin). Questo implica che c’è qualcosa che può “viaggiare” (o meglio trasmettersi) a velocità superiori a quella della luce, ovvero istantaneamente. Ciò non contravverrebbe la relatività einsteiniana che impedisce superare il limite della velocità della luce, perché quel limite solo si riferisce a energia e materia. Ma qui si parla d’altro: una delle particelle in qualche modo “sa” istantaneamente come cambia l’altra, non c’è nessun movimento concreto. È questo “sapere” che si trasmette a velocità iperluminali, non la propria particella.
Ma è la teoria dell’ordine implicato quella che maggiori riflessioni mi ha suscitato. Bohm creò questo neologismo, l’ordine implicato, per definire questa specie di forza, di campo sottostante alle esplicitazioni materiali di ciò che definiamo reale. Una specie di substrato dinamico a noi invisibile che determina tutto ciò con cui possiamo interagire. Era solito portare ad esempio l’acqua; sappiamo che unendo due atomi d’idrogeno e uno d’ossigeno si genera una molecola d’acqua. Secondo Bohm non sarebbero esattamente gli atomi che generano la molecola, quanto piuttosto le loro “relazioni” nel piano nascosto, funzione del potenziale quantistico: cioè a creare la molecola sarebbe la rete di relazioni a livello dell’ordine implicato. Praticamente secondo Bohm la realtà è determinata da una fittissima rete di interazioni tra tutta questa infinità di campi nascosti, dinamicamente interlacciati tra loro, a generare qualcosa di percettibile per noi, cioè materia ed energia: in altri termini, l’ordine esplicato.
Quindi, tutto ciò che esiste nell’ordine esplicato prende forma dalle relazioni sottostanti dei corrispondenti elementi fondamentali a livello quantistico che li caratterizzano, non localizzati e soggetti alla sovrapposizione di stati, nell’ordine implicato.
L’ordine implicato, cioè una dimensione della realtà più profonda di quella che appare, in-forma l’ordine esplicato. Tutto ciò che definiamo reale prende forma, si in-forma dall’ordine implicato, che è dunque capace di in-formare. Di conseguenza, l’ordine esplicato è in-formazione, ovvero quel “sapere” istantaneo, inspiegabile altrimenti, di una particella circa lo stato dell’altra, a prescindere dalla loro distanza (non localizzazione). Per questo non avrebbe senso il termine “velocità” nell’ordine implicato, perché lì non hanno senso né spazio, né tempo.
Scrisse nel suo “Wholeness and the Implicate Order“ che “Nell’ordine implicato, spazio e tempo non sono più i fattori dominanti che determinano le relazioni di dipendenza o l’indipendenza dei diversi elementi. Piuttosto, è possibile un altro tipo di connessione di base degli elementi, da cui le nostre nozioni ordinarie di spazio e tempo, insieme a quelle di particelle materiali separatamente esistenti, rappresentano astrazioni come forme derivate da un ordine più profondo. Queste nozioni ordinarie in realtà appaiono in quello che viene chiamato l’ordine esplicato, che è una forma speciale e distinta contenuta all’interno della totalità generale di tutti gli ordini implicati“. Ho trovato tutto questo estremamente affascinante.
In un certo senso è una specie di rivisitazione estremamente evoluta del mito platonico della Caverna: la realtà solo è manifestazione di un altro livello d’esistenza, invisibile, che però la determina.
Bohm scrisse che “dobbiamo imparare a osservare qualsiasi cosa come parte di un’Indivisa Interezza” (Undivided Wholeness), cioè che tutto è uno, l’universo è relazione.
Era anche solito portare ad esempio la metafora dell’ologramma, nel quale l’immagine intera è contenuta in ogni sua parte, è come avvolta nell’ologramma.
E, a proposito di quest’esempio, il neurochirurgo estremamente creativo al quale accennavo all’inizio è Karl Pribram, appunto il padre della teoria conosciuta come “modello cerebrale olografico della funzione cognitiva“, che lui stesso definì come “modello olonomico del cervello“, anche conosciuto come “modello olografico di Pribram e Bohm“. Il termine “olonomico” fu scelto perché quella dell’ologramma è una struttura fissa, mentre l’idea che Pribram voleva sottolineare era che questa rete di relazioni è dinamica, in continuo movimento. Non a caso i due, Pribram e Bohm si conoscevano molto bene.
L’umanità si è interrogata per secoli circa in quale zona cerebrale risiedesse la memoria. Ebbene, visto che non è possibile identificare un’area in particolare, una delle sue ipotesi prevede che sia l’intero cervello a comportarsi come un ologramma dinamico. Secondo questa visione, i ricordi sono distribuiti in tutta la struttura cerebrale, un enorme mare di relazioni dinamiche in continua formazione, tra sinapsi e neuroni, distribuiti un po’ dappertutto. Come in un ologramma, però in continua evoluzione.
Ripensando alle molte pubblicazioni e ai tanti articoli che tentano di interpretare le antiche definizioni di realtà differenti, alle antiche filosofie nate nella notte dei tempi praticamente in ogni punto del nostro pianeta, viene molto facile richiamare alla mente principi come “Archè”, “Tutto”, Uno”. Continua a stupire come anche gli antichi egizi in fondo parlassero delle stesse cose, attraverso immagini, ad esempio definendo l’Uno come sfera che sovrasta la Chiave della Vita, sotto un “cielo” che separa da un’altra realtà non direttamente percepibile, più esterna e preesistente, senza luce, né spazio, né tempo, cioè quella costituita dal Tutto (sarei tentato di associarlo alla moderna idea di Vuoto quantistico, il nulla pazzamente fremente da cui tutto è generato).
O anche alle triadi bardiche, con i tre cerchi che descrivono l’esistente: l’Essenza, le Anime, la Realtà percepibile.
Si ha la sensazione che la nostra consapevolezza dell’esistenza, più o meno cosciente, affonda le sue radici in tempi remotissimi e che noi, naviganti nel mare di Toth, mozzi, marinai, capitani o ammiragli della Conoscenza, a volte del tutto disorientati, a volte abbagliati da una qualche forma d’intuizione, più o meno consapevolmente, abbiamo il compito, al tempo stesso folle e utopico, di ripercorrerne le tappe innalzando le vele dell’esplorazione, studiandone la storia, analizzandone le caratteristiche, ipotizzando letture, annusando altri possibili cammini; in altre parole, arricchendo quell’infinito mare di relazioni informate e informanti di cui siamo fatti e di cui, probabilmente, è fatta la nostra anima.
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