L’Occidente consacrato alla Grande Madre Iside

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L’Occidente consacrato alla Grande Madre Iside

Premessa

Dobbiamo a Roberto Giacobbo e alla troupe di Freedom una scoperta di grande interesse riguardante la Statua della Libertà che a New York domina, dalla Liberty Island, la foce del fiume Hudson e l’intera baia di Manhattan.

Statua della Libertà a New York

Il nome completo dell’opera del massone Frédéric Auguste Bartholdi, dono dei francesi agli Stati Uniti d’America per il Centenario della Dichiarazione di Indipendenza, è Liberty Enlighting the World, la libertà guida il mondo, ma gli americani la chiamano familiarmente Lady Liberty, la Signora Libertà.

Il 4 luglio del 1776 con la Dichiarazione d’Indipendenza, gli Stati Uniti conquistarono la loro libertà ed è interessante ricordare che in quella dichiarazione venne introdotto il diritto alla felicità, frutto del pensiero del massone partenopeo Gaetano Filangieri del quale venne a conoscenza in un carteggio con lo stesso Filangieri il massone Benjamin Franklin, che fu uno dei padri della Dichiarazione.

Frédéric-Auguste Bartholdi, conosciuto anche con lo pseudonimo Amilcar Hasenfratz è stato un patriota e scultore francese, fervente repubblicano, sostenitore degli ideali garibaldini, nonché aiutante di campo di Garibaldi. Fu iniziato alla Massoneria il 4 ottobre del 1875, nella Loggia Alsace et Lorraine di Parigi.

Il fatto che la Signora della Libertà sia opera di un massone ci induce a pensare che sia stata concepita in chiave simbolica e secondo i paradigmi della “Lingua degli Uccelli.

La tradizione dei massoni costruttori di cattedrali si avvale infatti dell’argot e dell’art gotique, da cui l’aggettivazione delle cattedrali come gotiche.

“Per noi – spiega Fulcanelli – art gotique non è altro che una deformazione ortografica della parola argotique, la cui omofonia è perfetta, conformemente alla legge fonetica che regola la cabala fonetica in tutte le linge e senza tener conto alcuno dell’ortografia. La cattedrale, quindi, è un capolavoro d’art goth o d’argot. Dunque i dizionari definiscono la parola argot come «il linguaggio particolare di tutti quegli individui che sono interessati a scambiarsi le proprie opinioni senza essere capiti dagli altri che stanno intorno». E’, quindi, una vera e propria cabala parlata.  […]. Tutti gl’Iniziati si esprimevano in argot, anche i vagabondi della Corte dei Miracoli, col poeta Villon alla loro testa, ed anche i Frimasons, o framassoni del medioevo, «che costruivano la casa di Dio», ed edificavano i capolavori agotiques ancora oggi ammirati”.[1]  L’arte gotica, aggiunge Fulcanelli, “è l’art got o cot (Χ°), l’arte della Luce e dello Spirito”. L’argot, aggiunge Fulcanelli “è una delle forme derivanti dalla Lingua degli Uccelli, madre e signora di tutte le altre, lingua dei filosofi e dei diplomatici”.[2]

Parigi: la Libertà sull’Isola dei Cigni

Il modello della Signora della Libertà è a Parigi, sull’Île aux Cygnes, un isolotto artificiale sulla Senna , e altri possibili modelli sono stati rintracciati  nella Libertà della Poesia di Pio Fedi, in Santa Croce a Firenze, in una scultura di Camillo Pacetti sulla balaustra del Duomo di Milano e nel dipinto La Libertà guida il Popolo di Eugène Delacroix.

Lo scheletro portante della Statua fu progettato da Gustave Eiffel, l’ingegnere della omonima torre e la struttura in acciaio e i 300 fogli di rame sagomati da Bertholdi attraversarono l’Atlantico in 214 casse a bordo della piccola nave Isére, nome del fiume dell’omonima regione, la cui radice celtica, isar, significa ferro.

I codici nascosti nella struttura della statua.

La statua, comprensiva del basamento, misura 93 metri e per raggiungere la corona si devono percorrere 354 scalini, pari alle 12 lunazioni dell’anno lunare.

Le punte della corona sono sette e rappresentano i raggi di una stella, che è solitamente considerata in rapporto con Venere. Il sette è inoltre un numero molto particolare, che ritroviamo  nella suddivisione del tempo in settimane, nelle sette note, nei sette colori dell’arcobaleno, nei sette pianeti tradizionalmente considerati ed è, secondo Élemire Zola, “la luce mergente del fuoco, il limite della conoscenza, ovvero del significabile, è in rapporto con la luna misuratrice, le cui 28 case corrispondono alle 28 vertebre del corpo umano. In quanto indivisibile in interi è un ritorno all’uno; è immobile e virginale perché non genera nulla all’interno della decade e non è il doppio di nessun numero, in ciò simile allo zero, l’ingenerato e non generante”. [3]

“Sette volte – scrive Apuleio in relazione alla sua iniziazione isiaca – immersi il capo nell’acqua, in quanto questo numero, secondo il divino Pitagora, più d’ogni altro fa parte del rituale nelle cerimonie religiose…”. (Apuleio, Metamorfosi).

Già questi primi indizi ci fanno capire che la Signora Libertà è un insieme simbolico di grande significato.

La statua attualmente è verde, ma al momento della sua costruzione essendo di rame riluceva, come il piramidion di electron delle Piramidi. Bertholdi non poteva non sapere che il rame si sarebbe volto verso il verderame, a causa degli agenti atmosferici.

In questo caso la scelta del rame (metallo tradizionalmente riferito a Venere) può avere un significato alchemico, in quanto rappresenterebbe, nei suoi due colori, il Leone Verde e il Leone Rosso.

“Il primo agente magnetico  che serve a preparare il solvente – scrive in proposito Fulcanelli – alcuni lo hanno chiamato Alkaest, si chiama Leone Verde, non tanto perché possiede la colorazione verde, ma perché non ha ancora acquisito i caratteri minerali che distinguono chimicamente lo stato adulto dello stato nascente. E’ un frutto ancora verde e acerbo, se paragonato al frutto rosso e maturo. E’ la giovinezza metallica, sulla quale non ha ancora agito l’Evoluzione, ma che contiene in sé il germe latente d’una energia reale, che più tardi sarà destinata a svilupparsi. […]. Quanto al Leone Rosso, secondo i Filosofi, non è altro che la stessa materia, o Leone Verde, portato mediante speciali provvedimenti a questa tipica qualità che caratterizza l’oro ermetico”. [4]

Non è questa la sede per introdurre note relative all’alchimia, che peraltro non è di mia competenza, ma non si può non chiudere questa parentesi senza nominare lo Zolfo, visto che il rivestimento verde della Signora è dovuto essenzialmente al solfato di rame, che gli alchimisti chiamano il Vetriolo Verde.

Lo “spirito universale corporificato nei minerali con il nome alchemico di Zolfo – scrive Fulcanelli – costituisce il principio e l’agente efficace di ogni tintura metallica. Ma questo Spirito, questo rosso sangue dei fanciulli, può essere ottenuto solo scomponendo ciò che la natura aveva prima composto in essi. Quindi è necessario che il corpo perisca, che sia crocifisso e che muoia, se se ne vuol estrarre l’anima, la vita metallica, la Rugiada celeste, ch’esso teneva rinchiusa. E questa quintessenza, travasata in un corpo puro, fisso, perfettamente digerito, farà nascere una nuova creatura, assai più splendente dei corpi da cui deriva. I corpi non hanno alcuna possibilità d’agire gli uni sugli altri; solo lo spirito è attivo e agente”. [5]

Per chi voglia approfondire i concetti di metallo e di magnesia, rinvio al mio articolo: http://www.laboratoriocasadellavita.it/2019/09/01/come-tubalcain-consenti-a-caino-di-uccidere-abele/

La Libertà di Palazzo Guerrini Bratti

La Libertà a Cesena

Sin qui alcune possibili suggestioni simboliche che la scoperta di Roberto Giacobbo ci consente di seguito di avvalorare.

Roberto Giacobbo e la troupe di Freedom (guarda caso Libertà), entrando in un palazzo e signorile cesenate, ci ha consegnato una chiave importante per capire il collegamento tra i Riti Eleusini e le statue della Libertà che campeggiano in vari luoghi, il più famoso dei quali è, appunto, l’America, paese del quale la Statua della Libertà è uno dei principali simboli.

A Cesena, infatti, nella storica via Chiaramonti, in palazzo Guerrini Bratti, c’è la più antica statua della libertà.

A testimoniarlo a Roberto Giacobbo è l’attore Orso Maria Guerrini, che ha ereditato lo storico palazzo dallo zio, conte Leon Francesco Guerrini Bratti.

La statua, realizzata dall’architetto e pittore mantovano Leandro Marconi, che tra il 1792 e il 1796 ristrutturò palazzo Guerrini Bratti, e che fu la prima statua della libertà realizzata quando ancora gli esiti della rivoluzione francese (1789) erano vivi e prima di quella posta sulla facciata del Duomo di Milano e di quella collocata nella basilica di Santa Croce a Firenze; prima, ovviamente, di quella che svetta davanti al porto di New York, costruita dall’architetto francese Frédéric Auguste Bartholdi e prima di tante altre realizzate in varie parti d’Europa.

Rimasta sconosciuta ai più per più di due secoli, la statua, resa nota grazie a Freedom, che aveva già scoperto altre antesignane della statua di Manhattan a Milano e Firenze, è collocata, come ha spiegato Orso Maria Guerrini a Roberto Giacobbo “nel palazzo quasi a guida di un percorso che, salendo un capolavoro di scala a chiocciola, si conclude alzando lo sguardo su un rosone dove Giustizia e Pace si baciano mentre un putto rinfodera una spada”.

La scala è la “pazienza dei Filosofi” e la disposizione a chiocciola evoca il numero aureo. Sulla scala campeggia un dipinto con la figura di Ercole, l’eroe semidio simbolo delle prove iniziatiche.

Come evidenzia nel filmato di Freedom Orso Maria Guerrini, la statua rappresenta l’effigie di una giovane donna, drappeggiata in foggia classica, appena sorridente, la quale, impugnando una fiaccola nella mano sinistra, invita il visitatore a salire in alto, dove Pace e Giustizia si abbracciano.

A fugare ogni dubbio sul fatto che la statua sia dedicata alla Libertà c’è l’exspertise di un famoso artista e critico d’arte, Giannetto Malmerendi, che ha lasciato una disamina incontestabile sull’identità della fanciulla scolpita da Leandro Marconi (unica sua opera da scultore).

Alcuni particolari del percorso e della statua consentono di ipotizzare un collegamento con Demetra e con i Riti Eleusini.

Cominciamo da un particolare molto interessante. Ai piedi della statua c’è un mazzo di spighe.

La spiga, uno degli oggetti rituali dei Misteri, è definita da Foucart, che ritiene Demetra e Dioniso gli equivalenti di Iside e Osiride, “emblèm osirien” e “symbole de la mort d’Osiris”. [6]

Angelo Tonelli ricostruisce così la parte rituale relativa alla spiga: “Una spiga viene spiccata in silenzio dallo ierofante. E’ un gesto di grande potenza evocativa: un frutto, che è anche un seme, viene mietuto dallo stelo, e dunque la pianta viene uccisa come unità, ma da questa morte scaturirà una pluralità di piante-vite; l’Uno diventa Molti e i Molti sono forme dell’uno. La pianta tagliata è Dioniso che, come Osiride, muore nel fiore della vita, ma che rinascerà. E dunque il dio segreto dell’epoteía è Dioniso: morte e vita unite insieme in un solo gesto. Dioniso è l’Uno che si fa Molti, e vive-muore in ognuno dei Molti che da esso scaturiscono: ritroviamo tutto questo nel Dioniso orfico che guarda nello specchio e vede il mondo”.[7]

La pace garantita da Eleusi

Anche il tema della Pace che abbraccia la Giustizia sembra rinviare ai Riti Eleusini.

Paul Foucart, nel suo: “Mystères d’Éleusis” (Pardès), scrive che una tregua tra le città invitate ai Riti Eleusini “cominciava il 15 del mese precedente i Misteri, durava per il mese di Boedromione per intero e nei dieci giorni del mese seguente. Ugualmente, per i Piccoli Misteri la tregua durava cinquantacinque giorni. Durante questo tempo i mystes e gli epoptes, così come il loro seguito, erano in pace con tutti gli Ateniesi e questi, dal canto loro, erano al riparo da tutte le ostilità nelle città che partecipavano alle cerimonie d’Eleusi”. [8] Gli spondofori ricevevano dallo hierofante le sitruzioni per recarsi nelle varie città invitate ai Riti, le quali rispondevano con un decreto votato dal consiglio o dall’assemblea e inviavano lettere da leggere durante i Misteri.

“Queste ambasciate – sostiene Foucart – questi discorsi di Stato comunicavano agli Elleni l’idea di un sentimento d’una comune origine; era lo stesso linguaggio che parlavano loro, gli dei che adoravano erano gli stessi. Una tale comunità di lingua e di credenze ha sviluppato presso di loro quel patriottismo che abbiamo chiamato ellenismo…”. [9]

La fanciulla di Cesena regge la fiaccola con la mano sinistra, mentre la statua della libertà di Manhattan la tiene con la destra.  La posizione delle braccia delle statue di Demetra, oltre alle spighe poste ai suoi piedi, farebbero pensare ad un accostamento tra la statua della fanciulla di Cesena e Demetra, ma il riferimento potrebbe anche essere a Ecate. 

Infatti, nel mito di Demetra e Persefone, quando la Dèa è nel mondo infero alla ricerca della figlia Persefone, rapita da Ade, come si legge nell’inno omerico, “Ècate incontro a lei si mosse, e stringeva una face, e a lei recò messaggio…”.

Se osserviamo le immagini di Ecate, possiamo notare una notevole somiglianza con la statua della Libertà di Manhattan.

Ecate, colei che possiede la chiave del regno.

Chi è Ecate?

La Dèa è detta la triplice e la multiforme; con la sua torcia illumina le anime nel loro passaggio dalla luce all’oscurità; rappresenta la luce della scintilla della vita, ma anche quella dell’interiorità. Suoi attributi sono anche il coltello della levatrice, con il quale taglia il cordone ombelicale, la chiave del regno, conosciuto e sconosciuto, il serpente, associato alla rigenerazione, la ruota dalle sembianze labirintiche, la trottola (iugx): una sfera dorata costruita attorno ad uno zaffiro, con caratteri incisi e le civette, sue messaggere. Vi sono inoltre dragoni neri, il cane, cavalli, gatti neri, il pioppo nero e il salice.

Ecate, a seconda dei miti, è figlia di Perse e di Asteria, della notta Nyx o di Zeus e Demetra.

Inviata da suo padre alla ricerca di Persefone (archetipo delle stagioni), dopo che Demetra aveva minacciato di rendere arida la terra, Ecate per questo è anche detta Artemis, Pylax, Daidouchos, Phosphoros e Chtonia.  Ecate è in grado di viaggiare liberamente tra il mondo degli uomini e quello degli dèi, tra il regno di vivi e quello dei morti.

Apollonio Rodio  la definisce: “La dea Brimo, la grande matrice, Brimo notturna, infernale, la regina dei morti, nella nera notte, coperta di abiti neri”. (Argonautica).

L’accostamento tra Ecate e Brimo è sempre dovuta ad Apollonio Rodio quando Medea, sua sacerdotessa, la invoca: “…invocando Hecate Brimo in aiuto alle sue imprese”.

L’accostamento a Brimo è testimoniato anche da Licofrone di Alessandria, il quale la definisce “seguace di Brimo”.

Brimo, secondo Ippolito, è uno dei nomi pronunciati nei Riti Eleusini: “La divina Brimo ha partorito Brimos, l’infante divino”.

In Campania la Dèa aveva un bosco sacro vicino al lago Averno.

Enea la invoca, approdato a Cuma , in quanto la Sibilla era stata posta da Ecate a guardia dell’Averno.

A Caponapoli, come è scritto nel testo di Gennaro Rispoli e Antonio Emanuele Piedimonte,  (donatomi da Maria Fenderico, appassionata cultrice dei misteri partenopei), la collina del femminino sacro, sacra a Partenope, la sirena “Vergine”, dea dell’amore e della morte, veniva fatta ruotare la trottola di Ecate, “quel misterioso strumento che, come ricorderà il filosofo bizantino Michele Psello, serviva per ricevere «visioni» e provocare altre «ispirazioni lunari» spesso confuse con la pazzia. Ed è sempre qui che si coltivano le portentose «erbe di Ecate», indispensabili per le pozioni magiche, gli incantesimi e, ovviamente, le guarigioni”. [10]

Caponapoli passerà dalle” mani delle sacerdotesse della Sirena Partenope, alla quale è dedicata la città, in quelle ugualmente virginali delle fanciulle devote alla nera Demetra e a sua figlia Kore, la regina d’Oltretomba”. [11]

“Il volto di Demetra – scrivono Gennaro Rispoli e Antonio Emanuele Piedimonte – è raffigurato nelle centinaia di statuette votive ritrovate sulla collina sacra di Caponapoli insieme ad altri segni del culto e di ciò che restava del santuario dove si celebravano i Misteri eleusini, gli occulti riti di epoca arcaica che precedettero persino l’apparizione dell’Olimpo. Demetra e Kore, il segno del femminile, come le magiche Signore della Luna, come la vergine Ecate, sorella della grande Nyx, il cui abito nero trapuntato di stelle celava grandi ali, cioè la «Guardiana dei confini» o «Colei che tiene la chiave», alla quale sarà affidata la stessa Kore-Persefone nei suoi viaggi inferi”. [12] Gli archeologi hanno rinvenuto più di 700 statuette e oggetti votivi datati tra il IV e il III secolo avanti Cristo, riconducibili al culto di Demetra e Kore che nulla aveva a che fare con i riti della fecondità, ma con il rapporto tra i mondi celeste, terrestre e infero..

L’archeologo Emanuele Greco, citato da Gennaro Rispoli e Antonio Emanuele Piedimonte, scrive nell’enciclopedia dell’Arte Antica (Treccani): “La diversità tra Caponapoli e il resto della città è di natura funzionale, perché Caponapoli è l’acropoli della città, in cui ha sede il culto della divinità principale, Demetra, la Ceres Actaea di Stazio (Sil. Iv, 8, 50) riconoscibile  dalla stipe rinvenuta da oltre sessantanni (ma ancora sostanzialmente inedita) sotto il convento di S. Gaudioso. La grande acropoli con i suoi edifici di culto, estendendosi forse fino al convento di S.Patrizia, dove erano le terme, a monte dei teatri, non era sottoposta alle medesime leggi della divisione urbana, tranne il peribolos che doveva seguire l’andamento delle strade che delimitavano il santuario”. [13]

Lilitu la potente Signora dei cieli

Lilitu

Demetra e Kore sono strettamente connesse l’una all’altra tanto da essere indicate assieme come “le Dèe”. I loro simboli sono oltre alla spiga (Demetra), la melagrana (Kore-Persefone), frutto sacro e la torcia.

Demetra è Dea nera, come Iside, Ishtar, Cibele, Afrodite. “Divinità che – scrivono Gennaro Rispoli e Antonio Emanuele Piedimonte – per molti versi, discendono dalla grande Lilith, ovvero la mesopotamica Lilitu, la potente «Signora dei Cieli», figlia prediletta di «Dèi discesi sulla Terra» e poi tornati alla loro casa su altre stelle”, come si legge sulle tavolette di argilla incise cinquemila anni fa”.[14]

Ed è a Lilitu che si ispira, probabilmente, la figura della Sirena Partenope.

Il riferimento a Lilitu è significativo, in quanto ha un possibile diretto riferimento con la stella a otto punte che compare in uno dei dipinti del palazzo di Cesenate, al quale sembra indicare la statua della fanciulla con la torcia.

La stella ad otto punte è uno dei simboli fondamentali della Dea Ishtar, il cui culto era diffuso in area mesopotamica, ma anche di tutte le divinità femminili corrispondenti, come Astarthe, Iside, Afrodite e Venere, per citare gli esempi maggiori.

L’angelo sul quale campeggia la stella di Ishtar tiene nella mano destra una torcia e in quella sinistra una brocca dalla quale esce l’acqua celeste, la rugiada alchemica, che nella “Lingua degli uccelli” è assimilata alla rosa.

La rugiada celeste è l’anima, la vita metallica che dà vita ai corpi; è quella “magnesia”, “calamita filosofica” che ha la virtù attrattiva e che oggi potremmo definire luce come campo elettromagnetico che attrae e forma la materia corporea.

La statua della Libertà di Manhattan, pertanto, si pone come figura sincretica delle divinità che costituiscono il pantheon eleusino, il quale, secondo Foucart, rinvia ai Misteri isiaci e osiriaci.

La Signora Libertà è la Grande Madre Iside.

Iside alata

In questa chiave, la Signora Libertà è la figura sincretica della Grande Madre, la Dèa dai mille nomi: “Tu, una quae es omnia, Dèa Isis”.

Riprendo dal mio: “I Fedeli d’Amore alla corte di Artù” un cenno al culto di Iside.

Il culto di Iside, che ha sussunto in epoca romana quelli di molte altre forme della Dea,  è da considerarsi come un culto misterico di salvezza, diffusosi nel mondo antico su vasta scala. Le dottrine connesse con la Dea promettevano il riscatto, in un altro mondo, delle sofferenze sopportate in questo mondo e quindi la certezza di una nuova vita dopo la morte. Del culto di Iside e del ruolo della rosa nei misteri iniziatici connessi con la Dea, ci offre una significativa testimonianza Apuleio, nelle Metamorfosi.

Trasformatosi in asino a causa di un errore di applicazione di un unguento magico, Lucio cerca disperatamente di riscattarsi dalla condizione in cui si trova e prega la Dea affinché lo aiuti, rivolgendosi alla sua immagine. Seguiamo il racconto di Apuleio.

“Dovevano essere le prime ore della notte quando, per un’improvvisa sensazione di paura, io mi svegliai. La luna piena, scintillante in tutto il suo fulgore, sorgeva allora dal mare. Io ero come immerso nel misterioso silenzio della notte profonda e sentivo lo strano fascino dell’eccelsa dea che esercita il suo potere sovrano su tutti gli esseri viventi e non soltanto su questi, animali domestici o belve feroci che siano, ma anche sulle cose inanimate, che sentono l’influsso della sua potenza e della sua luce, sui corpi celesti o su quelli della terra e del mare, che crescono quando essa cresce, che si ritraggono quando essa cala. Sentivo che il destino, soddisfatto ormai delle mie tante e così grandi sventure, mi offriva, benché tardi, una speranza di salvezza e perciò decisi di pregare l’augusta immagine della dea che m’era davanti. Senza più indugiare mi riscossi dal torpore del sonno, balzai in piedi tutto lieto e arzillo e mi tuffai in mare per purificarmi. Sette volte immersi il capo nell’acqua, in quanto questo numero, secondo il divino Pitagora, più d’ogni altro fa parte del rituale nelle cerimonie religiose, e col volto rigato di lacrime, così pregai l’onnipotente divinità. «O regina del cielo, o sia pure tu l’alma Cerere, l’antichissima madre delle messi, che per la gioia d’aver ritrovata la figlia offristi all’uomo un cibo più dolce che non quello bestiale delle ghiande e fai più bella con la tua presenza la terra di Eleusi; o anche la celeste Venere che all’inizio del mondo desti la vita ad Amore e accoppiasti sessi diversi propagando la specie umana con una discendenza ininterrotta, onorata ora in Pafo, circondata dal mare; o la sorella di Febo, che alleviando con dolci rimedi il dolore del parto, hai dato la vita a tante generazioni ed ora sei venerata nei santuari di Efeso; o che tu sia Proserpina, la dea che atterrisce con i suoi ululati notturni, che nel tuo triplice aspetto plachi le inquiete ombre dei morti e chiudi le porte dell’oltretomba e vaghi per i boschi sacri, venerata con riti diversi, tu che con la tua virginea luce illumini tutte le città, che nutri con i tuoi umidi raggi le sementi feconde, e nei tuoi giri solitari spandi il tuo incerto chiarore, sotto qualsiasi nome, con qualsiasi rito, sotto qualsiasi aspetto sia lecito invocarti, soccorrimi in queste mie terribili sventure, sostienimi nella mia sorte infelice, concedimi un po’ di pace, una tregua dopo tanti terribili eventi, che cessino gli affanni, che cessino i pericoli. Liberami da quest’orrendo aspetto di quadrupede, rendimi agli occhi dei miei cari, fammi tornare il Lucio che ero. E se poi qualche divinità che ho offesa mi perseguita con una crudeltà così accanita, mi sia almeno concesso di morire se non mi è lecito vivere». Così pregai versando lacrime e lamenti da far pietà, finché nuovamente il sonno non vinse il mio animo spossato ed io non ricaddi là dove m’ero steso poc’anzi. Ma avevo appena chiusi gli occhi, quand’ecco che sulla superficie del mare apparve una divina immagine, un volto degno d’esser venerato dagli stessi dei. Poi la luminosa parvenza sorse a poco a poco con tutto il corpo fuori dalle acque e a me parve di vederla, ferma, dinanzi a me. Mi proverò a descrivervi il suo aspetto mirabile se la povertà della lingua umana mi darà la possibilità di farlo o se quella stessa divinità mi concederà il dono di un’efficace e facile eloquenza”.

E qui Apuleio, iniziato ai misteri isiaci, ci fornisce una mirabile immagine della Dea.

“Anzitutto i capelli, folti e lunghi, appena ondulati, che mollemente le cascavano sul collo divino. Una corona di fiori variopinti le cingeva in alto la testa e proprio in mezzo alla fronte un disco piatto, a guisa di specchio ma che rappresentava la luna, mandava candidi barbagli di luce. Ai lati, a destra e a sinistra, lo stringevano le spire irte e guizzantidi serpenti e, in alto, era sormontato da spighe di grano. Indossava una tunica di bisso leggero, dal colore cangiante, che andava dal bianco splendente al giallo del fiore di croco, al rosso acceso delle rose, ma quello che soprattutto confondeva il mio sguardo era la sopravveste, nerissima, dai cupi riflessi, che girandole intorno alla vita le risaliva su per il fianco destro fino alla spalla sinistra e, di qui,  stretta da un nodo, le ricadeva sul davanti in un ampio drappeggio ondeggiante, agli orli graziosamente guarnito di frange. Quei lembi e tutto il tessuto erano disseminati di stelle scintillanti e in mezzo ad esse una luna piena diffondeva la sua vivida luce: lungo tutta la balza di questo magnifico manto, per quanto esso era ampio, correva un’ininterrotta ghirlanda di fiori e di frutti d’ogni specie. Gli attributi della dea erano poi i più diversi: nella destra recava, infatti, un sistro di bronzo la cui la mina sottile, piegata come una cintola, era attraversata da alcune verghette che al triplice moto del braccio producevano un suono argentino. Dalla mano sinistra invece, pendeva un vasello d’oro a forma di barca dal manico ornato da un’aspide con la testa ritta e il collo rigonfio. Ai suoi piedi divini calzava sandali intessuti con foglie di palma, il simbolo della vittoria. Tale e così maestosa, spirante i profumi felici d’Arabia, si degnò di parlarmi la dea. «Eccomi o Lucio, mossa alle tue preghiere, io la madre della natura, la signora di tutti gli elementi, l’origine e il principio di tutte le età, la più grande di tutte le divinità, la regina dei morti, la prima dei celesti, colei che in sé riassume l’immagine di tutti gli dei e di tutte le dee, che col suo cenno governa le altezze luminose del cielo, i salubri venti del mare, i desolati silenzi dell’oltretomba, la cui potenza, unica, tutto il mondo onora sotto varie forme, con diversi riti e differenti nomi. Per questo i Frigi, i primi abitatori della terra, mi chiamano Pessinunzia, Madre degli dei, gli Autoctoni Attici Minerva Cecropia, i Ciprioti circondati dal mare Venere Pafia, i Cretesi arcieri famosi Diana Dittinna, i Siculi trilingui Proserpina Stigia, gli antichi abitatori di Eleusi Cerere Attica, altri Giunone, altri Bellona, altri Ecate, altri ancora Ramnusia, ma i due popoli degli Etiopi, che il dio sole illumina coi suoi raggi quando sorge e quando tramonta e gli Egizi, così grandi per la loro antica sapienza, venerandomi con quelle cerimonie che a me si addicono, mi chiamano con il mio vero nome, Iside regina. Eccomi, sono qui, pietosa delle tue sventure, eccomi a te, soccorrevole e benigna. Cessa di piangere e di lamentarti, scaccia il dolore, grazie ai miei favori ormai già brilla per te il giorno della salvezza. Sta ben attento, invece, agli ordini che ti do: il giorno che sta per nascere da questa notte, come vuole un’antica tradizione, è consacrato a me. In questo giorno cessano le tempeste dell’universo, si placano i procellosi flutti del mare, i miei sacerdoti, ora che la navigazione è propizia, mi dedicano una nave nuova e mi offrono le primizie del carico. Dunque, con animo puro e sgombro da timore, tu devi attendere questo giorno a me sacro. Infatti ci sarà un sacerdote,  in testa alla processione, che per mio volere porterà intrecciata al sistro una corona di rose. Senza esitare tu fatti largo tra la folla e segui la processione, confidando in me, poi  avvicinati a lui come per baciargli devotamente la mano e afferrargli le rose. Vedrai che in un attimo ti cadrà questa brutta pelle d’animale che anch’io già da tempo detesto. Non aver paura, ciò che ti dico di fare non è difficile, perché in questo stesso istante in cui ti sono davanti, sono presente anche altrove e al mio sacerdote sto dicendo in sogno le cose che deve fare. Per mio comando la folla assiepata ti farà largo e a nessuno, in questa lieta ricorrenza e nell’allegria della festa,  ripugnerà quest’orribile aspetto che hai o giudicherà male la tua metamorfosi interpretandola addirittura come un fatto sinistro. Ma ricordalo e tienlo bene a mente una volta per tutte, che la tua vita, fino all’ultimo giorno, è ormai consacrata a me. Del resto mi pare sia giusto che tu dedichi la tua esistenza a colei che per sua grazia ti ha fatto tornare uomo fra gli uomini. E tu vivrai felice, vivrai glorioso sotto la mia protezione, e quando il tempo della tua vita sarà compiuto e scenderai agli Inferi, anche allora, in quel mondo sotterraneo, nei campi Elisi, dove tu abiterai, vedrai me, come in questo momento, risplendere fra le tenebre dell’Acheronte, regina delle dimore Stigie e continuerai ad adorare il mio nume benigno. Che se poi con l’assidua devozione, lo zelo religioso, la castità  rigorosa tu avrai ben meritato della mia protezione, sappi che a me è anche possibile prolungarti la vita di là del tempo stabilito dal tuo destino». Posto fine all’augusta profezia l’invitta divinità scomparve”.

La rosa, nel racconto di Apuleio, è dunque il fiore che consente a Lucio di dismettere la pelle d’animale e, simbolicamente, è l’elemento attivante la trasmutazione dell’animalità (asino, somaro, soma) all’umanità, complesso di corpo, anima e spirito.

Lucio aveva già tentato di prendere la rosa, ma in questo caso non dopo il consiglio della Dea e, quindi, senza il suo consenso.

“… notai, in un pilastro che sosteneva la tettoia della stalla, una nicchia posta quasi nel mezzo, dove c’era un’immagine della dea Epona, adornata con cura con delle ghirlande di rose ancora tutte fresche. Alla vista di questo rimedio salvifico, lasciandomi andare alla speranza, allungo le mie gambe davanti più che posso; mi slancio con tutte le mie forze; e, il collo teso, le labbra allungate, faccio tutti gli sforzi immaginabili per raggiungere le ghirlande”.  La ghirlanda di rose, che simboleggia la conquistata vittoria ed è, secondo Plutarco, la corona degli iniziati e dei trionfatori, può essere paragonata , secondo Boris de Rachewiltz, alla “Corona di Giustificazione” che la mummia riceveva dopo essersi sottoposta ad un giudizio preliminare”. [15]

La rosa, simbolo della Dea, nelle mani del sacerdote di Iside diventa la Dea stessa, ne materializza la presenza e ne concretizza i poteri salvifici. Il contatto con la Rosa-Dea trasmuta l’uomo animale in un uomo che si rende consapevole del suo essere anima e spirito. La Dea salva, toglie la pelle ed evidenzia il corpo luce: il somaro (soma) torna ad essere Lucio (luce).

Ecco la rosa rugiada, magnesia, che l’angelo di Cesena versa dalla brocca.

L’Occidente mediterraneo e atlantico, nella simbologia delle statue della Libertà, è consacrato a Iside, la Grande Madre, che ci dice che a costituire il nostro corpo fisico è la rugiada celeste, la magnesia degli alchimisti e che l’essere umano nasce libero e ha diritto alla felicità e che nessun essere umano ha il diritto di conculcare la libertà altrui.

Un essere umano che conculca la libertà altrui è solo un somaro, un soma privo di magnesia e di quel grumo di informazione che è l’identità cosciente e intelligente; è inviso alla Dèa.

© Silvano Danesi


[1] Fulcanelli, Il mistero delle cattedrali, Mediterranee

[2] Fulcanelli, Il mistero delle cattedrali, Mediterranee

[3] Élemire Zolla, Archetipi, Marsilio

[4] Fulcanelli, Il mistero delle cattedrali, Mediterranee

[5] Fulcanelli, Il mistero delle cattedrali, Mediterranee

[6] Paul Foucart, Les mystères d’Éleusis, Pardès

[7] Eleusis e Orfismo, a cura di Angelo Tonelli, Bur

[8] Paul Foucart, “Mystères d’Éleusis”, Pardès.

[9] Paul Foucart, “Mystères d’Éleusis”, Pardès.

[10] Gennaro Rispoli, Antonio Emanuele Piedimonte, La collina sacra, Museo delle Arti sanitarie.

[11] Gennaro Rispoli, Antonio Emanuele Piedimonte, La collina sacra, Museo delle Arti sanitarie.

[12] Gennaro Rispoli, Antonio Emanuele Piedimonte, La collina sacra, Museo delle Arti sanitarie.

[13] Gennaro Rispoli, Antonio Emanuele Piedimonte, La collina sacra, Museo delle Arti sanitarie.

[14] Gennaro Rispoli, Antonio Emanuele Piedimonte, La collina sacra, Museo delle Arti sanitarie.

[15] Boris de Rachewiltz, Egitto Magico Religioso, Edizioni della Terra di Mezzo

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