Nell’antica terra degli Orobi esistono tracce di una via sacra druidica che, molto probabilmente, aveva inizio a Vertova (Érfa), dove esiste ancora una strada denominata “Druda”, e terminava, dopo aver guadato il fiume Serio, sull’altura oggi dedicata alla Madonna d’Erbia, dove il toponimo Erbia ha la stessa radice di Érfa.
Il percorso sacro è a valle dell’antica Parra (oggi Parre) in Valle Seriana, prima della strettoia che divide la media dalla bassa valle Seriana, il ché consente di ipotizzare che, essendo posta in un territorio romanizzato, i toponimi abbiano potuto subire l’influenza latina, così come è ipotizzabile quella celtica irlandese, in considerazione degli intensi traffici tra il territorio di Vertova e l’Irlanda lungo la “via della lana”.
L’antica Parra delle genti orobiche
Parre, l’antica Parra delle genti orobiche, con successivi scavi diretti da Raffaella Poggiani Keller, è stata riportata alla luce negli anni Novanta del secolo scorso. In località Castello sono stati ritrovati i resti di un abitato che si sviluppava su 13 mila metri quadrati di superficie, probabilmente fondato nell’età del Bronzo e del quale sono stati pubblicati i reperti in: L’oppidum degli Orobi a Parre (Bg), a seguito di una mostra e di un convegno tenutisi nella Cripta di Santa Maria della Vittoria a cura della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia.
Dalle relazioni degli studiosi raccolti nel volume edito da Edizioni ET, Parra emerge come un punto strategico nei rapporti tra le popolazioni alpine e quella della bassa valle e della pianura.
“Parre, l’oppidum degli Orobi citato dalle fonti – scrive Raffaella Poggiani Keller – per le consistenti strutture insediative e per la cronologia pressoché ininterrotta dalla tarda età del Bronzo ad età augustea, con una successiva ripresa in età romana avanzata, costituisce un punto di riferimento per la conoscenza dell’area alpina lombarda. Inoltre esso risulta parte di un sistema articolato di abitati duraturi che nella medesima Valle Seriana si collocano a controllo delle strette di valle (Casnigo-Castello, Bracc e Colzate-San Patrizio, individuati con la ricerca di superficie) e delle confluenze delle valli laterali e dei percorsi interni, oltre che delle risorse minerarie (oltre Parre-Castello, Castione della Presolana-Castello)”.[1]
“Non vi è dubbio –aggiunge Ermanno A. Arsla – che Parre, centro le cui origini affondano nella protostoria, sia stata definitivamente acquisita ai territori dell’Impero romano nel 16-15 a.C., al termine delle guerre alpine di Augusto. Fino ad allora rappresentò l’«avamposto» delle popolazioni alpine verso lo sbocco della Valle, il luogo dove due mondi si incontravano e dove si scambiavano prodotti minerari e beni di consumo”[2].
A Parre, scrive Claudio Giardino – “aveva luogo il ciclo completo della produzione metallurgica, dall’estrazione del metallo dai minerali sino alla fabbricazione del prodotto finito, pronto per l’uso. … Parre era dunque un sito centrale nell’economia della Valle Seriana, che doveva svolgere un ruolo rilevante nel controllo produttivo, e forse anche politico, del territorio”. [3]
Il rame prodotto dai metallurghi di Parre contribuiva, forse in maniera non marginale, ad alimentare una vasta rete di traffici interregionali che avvolgevano i territori, “in una rete di Bronzo, dall’oceano Atlantico sino alle rive del mar Egeo”.[4]
Casnigo santuario e avamposto di Parra
L’ipotesi che intendo esporre è che il territorio attuale del comune di Casnigo fosse, al tempo della presenza delle genti cosiddette orobiche, ovvero di una tuath celtica che successivamente venne denominata degli Orobi, l’avamposto di Parre o, meglio, dell’antica Parra, citata da Plinio, e al contempo sede di un antico percorso sacro.
Casnigo, per la sua collocazione geografica, si presenta come un luogo strategico di controllo del territorio e, in particolare, del passaggio obbligato che oggi possiamo identificare nei pressi del Ponte del Costone, che consentiva o meno, a chi intendeva dalla pianura risalire la Valle Seriana, di raggiungere Parra. Oltre la strettoia del Ponte del Costone, la Valle Seriana si collega con la Val Brembana, attraverso la Val del Riso, con la Val di Scalve e con la Val Tellina attraverso l’alto Serio e con la Valle Camonica e il Lago d’Iseo, seguendo la direttrice che conduce a Clusone e da lì a Sovere e Lovere. Controllare la strettoia era, dunque, di vitale importanza.
Vedremo, nel corso dell’articolo, come quanto ipotizzo non sia privo di fondamento.
Plinio scrive: “Catone sostiene che siano stirpe degli Oromobi Como, Bergamo e Foro di Licinio, ed un altro po’ di paesi là intorno, ma confessa di non sapere l’origine di questa gente, che invece Cornelio Alessandro ritiene di estrazione della Grecia, anche interpretandone il nome come “viventi tra i monti”. In quel paese è sparito l’abitato di Parra (da cui vengono i Bergomates), ancora oggi evidente, in una posizione più alta che buona”. (Plinio il Vecchio, Nat. Historia, III, 124-125.).
Angelo M. Ardovino, nel saggio: L’oppidum degli Orobi a Parre (Bg) a cura di Raffaella Poggiani Keller, Edizioni ET, 2006, scrive: “Parra è citata soltanto nel celebre luogo di Plinio da cui risulta che un popolo, che solo per convenzione moderna viene chiamato Orobi (il nome manca nei codici antichi), si estendeva da Como alla Valle Seriana. In realtà non si è mai trovata traccia di un’entità politica e culturale autonoma che abbia occupato in un qualsiasi periodo dell’antichità questo territorio, allungato e indifendibile. Più che un popolo a sé stante, oggi gli Orobi appaiono delle genti diverse che, all’interno del mondo degli Insubri, sono unite da un legame di tipo religioso e non politico, paragonabile a quello delle anfizionie greche. In questo contesto è possibile che Parra fosse, ben prima della romanizzazione, sede di un importante santuario federale, il cui ricordo abbia dato origine alla affermazione di Plinio che Bergamo fosse una sua colonia. Più probabilmente, Bergamo intratteneva con Parra rapporti di tipo religioso, che Plinio, che scrive secoli dopo, ha frainteso e ricondotto al luogo comune della città fondata da un’altra”.
Tolta di mezzo ogni possibile derivazione greca ipotizzata da Cornelio Alessandro e riportata in ambito celtico Parra, mi pare di poter dire, in perfetta assonanza con Angelo M. Ardovino, che non si possa parlare di dipendenza politica di Bergamo da Parre. E’ noto che le tuath celtiche avevano in grande considerazione la libertà e nessuna tuath si sarebbe sognata di dipendere da un’altra o di averne un’altra alle proprie dipendenze. E’ altrettanto noto che le tuath, una volta raggiunta una certa dimensione, così come le famiglie, sciamavano, dando origine ad altre comunità. Va inoltre considerato che le varie tuath, divise dai territori e spesso dalla lingua, erano profondamente unite da un insieme di valori, primo tra i quali la libertà, dei quali erano custodi i druidi, impropriamente definiti sacerdoti e più propriamente definibili come “molto sapienti”, ovvero appartenenti alla classe intellettuale del mondo celtico (filosofi, giuristi, medici, sacerdoti, musicisti, farmacisti, ecc.). Uno status, quello dei druidi, ampiamente riconosciuto dai Greci, con i quali avevano ottimi rapporti, anche in conseguenza degli intensi scambi commerciali e culturali e spesso demonizzato dai Romani, in evidente e ormai acclarata funzione politica e di conquista. I druidi non appartenevano ad alcuna tuath, erano liberi di muoversi attraverso i territori e si riunivano, periodicamente, in collegi druidici, il più famoso dei quali, nella Gallia, era quello di Carnut-Is (dove Is significa luogo sacro), ovvero il luogo sacro dei Carnuti, nella foresta di Voive, dove era conservata, in una grotta dolmenica, la Virgo Paritura e dove oggi sorge la cattedrale gotica di Chartres. L’ipotesi che Parra fosse un antico santuario federale implica la possibilità che fosse sede di un collegio druidico.
Tuttavia, in considerazione di molti elementi, che tenterò di mettere in ordine, avanzo l’ipotesi che il vero santuario federale fosse non propriamente Parre, ma il territorio di Casnigo, che assume, pertanto, non solo la valenza di avamposto militare strategico, ma anche di luogo sacro, probabilmente tale sin da tempi ben più antichi di quelli relativi alla cultura celtica.
Casnigo avamposto strategico di Parra.
Nelle “Memorie storiche” raccolte dal parroco di Casnigo Bernardo Donadoni, edite nel 1929 a cura della Tipografia dell’Orfanotrofio Maschile in Bergamo, si legge: “Da Casnigo, grossa, antica ed illustre borgata della Val Gandino, partendo dalla contrada del Cornello, una stradicciuola mulattiera or leggermente inclinata, ora assai ripida, internandosi nelle sinuosità delle vallette del Travicello e del Riposo, poi emergendo sul dorso del monte, tra vaghi fraticelli e verdi macchie, mette con un’ora circa di cammino, alle alture del monte di Erbia e al Santuario, dalla località, detto appunto della Madonna d’Erbia. Il Santuario, cogli edifici annessi, sorge su un’insenatura della montagna, sul versante nord, con uno sfondo di prati, di boschi terminanti in gioghi, in dirupi, in vette dalle forme più svariate e bizzarre, che sembrano accoglierlo nel loro seno, per difenderlo dal rigido soffio dei venti di tramontana. Luogo raccolto che dispone alla devozione e alla pietà, facendo quasi ricordare che la Vergine sa scegliersi per sua prediletta dimora i forami delle pietre: “columba mea in foraminibus petrae” per ricevervi speciale culto e dispensarvi maggiore copia di grazie ed aprire il cuore de’ suoi divoti alle più belle speranze; – e luogo ameno, poiché l’occhio del visitatore dal piazzale del Santuario, può spaziare largamente, contemplando una vaghissima prospettiva. Intorno si estendono vaste praterie olezzanti di fiori, con macchie frequenti di alberi e di cespugli allietate dal giulivo canto degli uccelli e più in là il terreno è frastagliato da dirupi e da rocce, che si ergono a picco; di fronte spiccano le casette del vago paesello Bondo Colzate come appartato in amena solitudine, tra folti boschi e prati verdeggianti solcati da piccole vallette; al basso valloncelli e ripidi dirupi fino al Serio che scorre in fondo alla valle nel tratto fra Vertova e Ponte Nossa; e spingendo lo sguardo più oltre, di tra le strette gole dei monti si scorgono Ponte Nossa col suo rinomato Santuario, e, sopra, Parre e Premolo, paesetti aprichi e pittoreschi distesi su un breve altipiano, dietro il quale si levano montagne ammantate da vaste boscaglie di un verde cupo e da amenissimi prati sparsi di casolari e di ville – nel complesso un lembo della Valle Seriana, con panorama interessante ed incantevole per tante bellezze naturali. Chi poi dal Santuario, continuasse a salire anche per piccolo tratto, sul monte verso mezzogiorno, da uno di quei poggi potrebbe contemplare anche più vasto e magnifico panorama. Vedrebbe infatti stenderglisi dinnanzi un tratto dei più popolari e ameni dell’operosa Valle Seriana: le grosse borgate di Vertova, Fiorano, Gazzaniga, che guardate dall’alto sembrano riunite ed offrono l’aspetto di una cittadina con vasti caseggiati e grandiosi opifici; il corso del Serio giù fino ad Albino, la strada ferrata e le strade provinciali e comunali che in fondo alla valle appaiono quasi serpi snodantisi”.
Nella descrizione del paesaggio casnighese di Bernardo Donadoni è di grande importanza, al fine che mi sono proposto, ossia quello di dimostrare che il territorio di Casnigo fosse l’avamposto militare dell’antica Parra, il fatto che salendo un piccolo tratto sopra il santuario si possano vedere Vertova, Fiorano, Gazzaniga.
Il Monte Erbia (784 metri), infatti, come si può vedere dalle carte geografiche, si propone all’osservatore e allo studioso come il fulcro dell’insieme dei luoghi di osservazione del territorio capaci di controllare la Val Seriana verso il basso, oltre la strettoia del Ponte del Costone. Un fulcro in perfetto contatto visivo con Parre (Parra) e dunque in grado di comunicare in tempo reale ogni movimento.
Dalla sommità del Monte Erbia, che sovrasta di poco il Santuario, è infatti possibile vedere il Santuario di San Patrizio (674 metri) e il Santuario della Trinità (689 metri), che, a sua volta è in contatto visivo con San Patrizio e con l’Agro di Casnigo, che si protende sulla valle come una vera e propria piattaforma in grado di funzionare, in vari modi, da contenimento avanzato di ogni possibile ingresso non desiderato.
Il Monte Erbia, inoltre, come s’è detto, è in contatto visivo con Parre (Parra), che altrimenti non sarebbe visibile dalla Trinità e da San Patrizio.
La Trinità e San Patrizio, per la loro collocazione, l’uno in faccia all’altro, in perfetto allineamento Est-Ovest, per la loro rilevanza altitudinale e per la loro disposizione, si evidenziano come due perfetti osservatori ravvicinati di tutti i movimenti in un lungo tratto della valle e per la loro diretta comunicazione visiva con il Caslì de Ganda (1070 metri) e con la località che ospita il Santuario della Madonna di Altino (840 metri), anche come possibili ponti comunicativi di osservatori che possono avere una visuale più ampia.
La sommità del Monte Erbia è facilmente raggiungibile dalla piana di Casnigo e da quella posizione, chi intendesse fuggire oltre la strettoia del Ponte del Costone verso Parre (Parra), troverebbe facili vie di fuga percorribili. La sommità del Monte Erbia è, inoltre, a poche centinaia di metri da una fonte (fonte Scascié) ed è connotata da ampie zone prative che consentono coltivazioni e allevamento, fornendo così, a chi fosse stato incaricato di vigilare, un facile sostentamento.
Il territorio del comune di Casnigo è inoltre sede di gran parte della via sacra che da Vertova (Érfa) conduce a Erbia, sede ora di un santuario mariano e, con tutta probabilità, di un antico santuario celtico o, forse, preceltico.
Il Dragone e la strega
Se raggiungiamo l’attuale abitato di Casnigo, nelle sue parti più antiche, seguendo un antico sentiero che parte dalle rive del Serio, incontriamo in primo luogo, a pochi passi dalla riva, una fonte nella quale la tradizione popolare aveva collocato, forse a causa del gorgoglio provocato da un sifone, un drago.
Il Dragone fu ispezionato da Leonardo Da Vinci per i suoi studi sulle acque.
Salendo lungo il sentiero, in quella che attualmente si chiama Rìa da Pì, si incontra una fonte che dà origine ad un lago sotterraneo (in grotta). Alla fonte è legata una leggenda che la vuole abitata da una strega che porta i bambini.
Abbiamo qui una prima interessante connessione tra una strega, ovvero tra un’antica divinità correlata ad una fonte e ad una grotta (tutti simboli della Dèa Madre) e la nascita (il parto e conseguentemente l’allattamento).
La fonte viene anche indicata come Fritella o Fritilla, un vocabolo che indica offerta. Anticamente le offerte erano di solito connesse con le fonti sacre.
Scrive Riccardo Taraglio: “La Brighit celtica è dea del fuoco, del sole, della luna, della filiazione degli animali, dell’arte dei fabbri, della fertilità e della nascita (e quindi dell’ostetricia e delle levatrici), della famiglia, del focolare (patrona delle abilità domestiche), della filatura e della tessitura, della musica e della poesia, della guerra, della medicina, della divinazione. Veniva invocata dalle donne sia per chiedere una gravidanza, cantando delle invocazioni sulle acque di una sorgente sacra o gettandovi delle offerte, sia durante il parto per facilitarlo e portarlo a buon fine”. [5]
Un riferimento interessante lo troviamo anche in relazione a Diana, invocata nel Tempio dell’Aventino come Lucina, protettrice dei parti, alla quale era dedicato il giorno 13 di agosto. Ritroviamo anche in questo caso il motivo della maternità connesso con la strega della Rìa de Pì.
Chi era Diana? Dī – āna, dalla radice *dīum, spazio celeste, come suggerisce Graves[6], aveva tra le altre funzioni quella di tutelare le nascite, era regina delle selve ed era raffigurata con un ramo fronzuto in una mano e una coppa piena di frutta o piegata verso un altare da cui spuntava un cervo.
Il fonema indoeuropeo Na è il simbolo delle Acque indifferenziate. [7] “Soltanto in un secondo tempo, con l’apparizione della luce nelle acque [ka], il pensiero indoeuropeo avrebbe riconosciuto al loro interno il primo Essere, Eka, l’Uno: «luce [Ka] che sorge [e] dalle Acque»”.[8]
Il Nulla, Na…, rappresenta le Acque viste nel loro aspetto imperscrutabile, mentre l’Uno, Eka, rappresenta le stesse Acque viste nel momento del sorgere della Luce al loro interno. Luce «creatrice», in quanto rende visibile e riconoscibile l’intero universo.
Da Ka deriva Eka (e+ka è il sorgere della luce), che dà origine a Da, luce creata.
Abbiamo, pertanto, una luce creatrice Ka, che sorge dalle Acque cosmiche Na, il Nulla, come Eka, moto di Ka e origina Da, luce creata.
Kam, derivante da Ka, infinito, e da M, limite, simbolo della realtà relativa e finita, è amore.
“La consonante M – spiega Franco Rendich – è all’origine di mātŗ «madre», il fattore femminile della creazione che conduce la divina immobilità di Eka ad incarnarsi nella terrena transitorietà di dvi, il «due». In altre parole Kāma, «amore», rivela l’unione tra l’Infinito [Ka] e il Finito [M], nell’attimo in cui nasce il loro comune desiderio di creare la vita nell’Universo”.[9]
Il processo, in sintesi, è: il Nulla [Na – Tenebra – zero], contiene l’altra parte di sé, l’Uno [Ka, luce creatrice], il quale dinamizzato nella luce creata [Da] si realizza, per impulso d’amore [Kāma], nel molteplice materiale, caratterizzato dal limite [M].
Il 13 di agosto, fa notare ancora Graves, festa precristiana della Dèa Madre Diana, invocata nel Tempio dell’Aventino come Lucina, protettrice dei parti ovvero Vesta, era celebrata con libagioni di sidro, un capretto arrosto infilzato sui rami di nocciolo e mele appese a grappoli a un ramo. Nel calendario arboreo celtico il 5 di agosto era l’inizio del mese di Coll (nocciolo), il mese della saggezza.
Abbiamo Diana Nemorensis (del bosco) e, in Gallia, Diana Nemetona (nemeton, bosco sacro).[10] Le statue la raffigurano con in mano un ramo di melo.
La strega della Rìa da Pì è dunque Diana o la celtica Brighit?
Diana è la greca Artemide, la quale era “originariamente una grande dèa della fertilità, e, pei presupposti della religione primitiva – scrive Frazer -, chi rende fertile deve essere fertile essa stessa e per esserlo deve avere necessariamente un compagno maschile”.[11] Il compagno di Diana, come di Artemide, è Ippolito, il quale, calpestato dai cavalli di Poseidone, venne resuscitato, per intercessione della Dèa, da Esculapio. Per sottrarlo alle ire di Poseidone, la Dèa lo invecchiò e lo nascose nel folto del bosco, con il nome di Virbio. Ippolito-Virbio, che ritroviamo cristianizzato con il nome di Sant’Ippolito, ebbe un figlio che portò il suo nome, rappresentando, in questo modo, il ciclo naturale del vecchio re che lascia il posto al nuovo, ovvero della natura vegetale che si rinnova con il procedere delle stagioni. Virbio diede origine ad una successione di sacerdoti di Diana, chiamati Re del bosco.
A Diana è legata la ninfa Egeria, divinità della fonte, che svolge le stesse funzioni di Diana in relazione alla maternità.
A Petta un altare del Neolitico
Salendo lungo l’antico percorso sacro si arriva nella zona denominata Petta. Il luogo si presenta, ad una prima osservazione, di interesse archeologico per la presenza di un altare Neolitico censito dall’archeologa Raffaella Poggiani Keller, per la presenza, sulla sommità del colle omonimo, dei resti di un possibile castelliere e per evidenze litiche, che ne indicano il possibile uso antico come luogo di culto e di osservazione astronomica.
Nella Carta archeologica della Lombardia (provincia di Bergamo, pagina 59), in relazione a Monte Petta o Bracc, Raffaella Poggiani Keller scrive: “Un insediamento pre-protostorico, indicato da frammenti ceramici rinvenuti in superficie, è stato individuato nel 1984 in località Petta o Bracc, un cucuzzolo isolato dominante la sponda idrografica sinistra del fiume Serio, a quota 684 m.s.l.m. L’insediamento comportò un adattamento della sommità del rilievo che fu spianato artificialmente e arginato con muri a secco e terrazzamento. L’epoca di frequentazione potrebbe risalire, con molte incertezze, all’età del Bronzo. Nella località si osservano, inoltre, incisioni rupestri di epoca storica su blocchi utilizzati in costruzioni agricole” (Relazione di Raffaella Poggiani Keller, 1984).
La sommità del colle 684 metri s.l.m.) è allineata alla chiesa della Trinità di Casnigo (689 m.s.l.m.) e al santuario di San Patrizio di Colzate (674 m.s.l.m.).
Riguardo al toponimo, possiamo per ora ipotizzare due derivazioni.
La prima riguarda la radice *pete- che indica sia direzione di marcia verso un luogo o persona, sia movimento nell’aria, come volare o cadere.
Latino petitio, dal verbo petere. Greco píptein (cadere), péptomai (io volo). Sanscrito patami (io volo, io cado).
Peta era la divinità romana alla quale era chiesto il modo di rivolgersi agli dèi per avere il loro aiuto.
Petitio (petizione) ha il significato di: attacco, colpo, assalto, stoccata; domanda, richiesta, preghiera, supplica; cercare di giungere a; candidatura; petizione; riscossione. Il termine è di origine indoeuropea.
Dall’insieme dei significati si può ipotizzare:
- che il luogo conducesse a un altro (Erbia), nel senso che ne costituisse una tappa verso;
- che nel luogo indicato si tenessero riti propiziatori prima di salire al luogo dove poteva esserci il santuario vero e proprio o un luogo dedicato a una o più divinità;
- che il luogo fosse dedicato alla dèa Peta.
Da tutti e tre i casi emergerebbe l’indicazione di un luogo propedeutico, che ne preparava e indicava un altro. Il luogo potrebbe dunque essere una tappa di un percorso antico.
Peta, la “Signora del Gioco” e le congreghe di streghe
La seconda derivazione riguarda la dèa Perchta, la “Signora del gioco”.
Peta, in questo caso, deriverebbe dalla corrosione di Perchta (ritroviamo anche qui Diana in altra forma).
Siamo in presenza del mito dei viaggi notturni delle schiere di donne guidate da Abundia-Satia-Diana-Perchta, e quindi della caccia selvaggia o esercito furioso di odinica memoria.
Peta è, con tutta probabilità, la “Signora del gioco”, divinità norrena (Percht, detta anche Holda, Oriente, Berthe), associata a Diana e dèa della fertilità e della vegetazione. “Va considerata la possibilità che questa divinità, della quale la domina ludi era una delle molte personificazioni, condividesse con Thor (divinità norrena e celtica, n.d.a.) il potere di richiamare in vita gli animali, così come pare condividesse con Odino la funzione di guida dell’esercito furioso”.[12]
La compagnia ricorda quella dei Benandanti (maghi e stregoni) friulani, dei quali ha scritto Carlo Ginzburg[13], combattenti per la fertilità, trasformati in professionisti nelle arti magiche. Alla compagnia è connessa la domina cursus, “che nella tradizione demonologica comandava le orde stregonesche lanciate nella corsa verso il sabba”. [14] “La caccia selvaggia è un mito in cui sono presenti demoni, figure ibride di animali: una forsennata e temuta orda notturna, in cui si riflettono molti elementi del corteo in volo al sabba, amalgamata al mito del corteo degli spettri”. [15]
A questo proposito, intorno all’anno mille, Bucardo di Worms, nel De inantatoribus et auguris e nel De poenintentia “descrive molti culti pagani sopravvissuti e in particolare cita le cavalcate notturne delle streghe per il cielo in compagnia di Diana”.[16]
La Signora del gioco, “nella tradizione della stregoneria, era colei che aveva il compito di dirigere e coordinare le donne datesi a Satana e riunitesi nel sabba. Si tratta di tradizioni religiose precristiane connesse ai culti stagionali”. [17]
Queste le interpretazioni demonizzanti le antiche divinità e i seguaci dell’Antica Religione.
Chi erano in realtà le streghe?
Ostetriche, guaritrici, erboriste, legate all’Antica Religione della Dèa Madre e del Dio Cornuto, il Kernunnos, le streghe (maschi e femmine), non erano altro che uomini e donne che praticavano culti antichi, ovvero pagani, in epoca cristiana.
Margarete A. Murray ci suggerisce una chiave di lettura assai importante: le congreghe. Le congreghe di streghe, che la Murray sostiene essere il “clero” dell’Antica Religione, erano composte di un numero che non variava mai: erano sempre in 13, cioè dodici membri e il “dio”, rappresentato dal capo della congrega, affiancato da un vicario e da un membro femminile denominato la “Fanciulla”. “L’organizzazione – scrive la Murray – era davvero perfetta; ogni congrega era indipendente sotto il proprio vicario e tuttavia era collegata con tutte le altre congreghe del distretto sotto un unico Gran Maestro”.
Va da sé che, poiché le streghe sono durate secoli dopo l’avvento del cristianesimo, l’Antica Religione è sopravvissuta, in forme occulte, fino alle soglie dei nostri giorni.
Molte le leggende, legate alla Signora del gioco, presenti in ambiente alpino.
“Tra Cevo e Saviore [Valle Camonica] – scrive Daniela Rossi – al Bàit dei Sàncc (Fienile dei Santi), di notte si sente la Dòna del zöck, la Signora del gioco, residuo di antiche divinità pagane, forse una volgarizzazione di Erodiade o Diana; tale entità è citata nel Canon Episcopi, apportatrice di danni e paure. Secondo la tradizione saviorese, in questo fienile ridde di demoni d’ogni sorta intessevano danze sabbatiche: talvolta i giovani del paese venivano invitati a festeggiare da avvenenti creature, che rivelavano poi la loro natura, mostrando ripugnanti piedi di capra. Chi osasse avvicinarsi vedrebbe “un lume in basso quando si trova in alto, in alto quando si trova in basso”. Quando la Dòna del zöck giungeva nei pressi di baite isolate, faceva impazzire gli animali, graffiava porte e finestre, lasciava i prati ricoperti d’escrementi; si potevano vedere i segni della stregoneria sugli animali (come i crini intrecciati dei cavalli) che di lì a poco sarebbero morti.[18]
Si narra che nella malga di Adamè, proprietà dei vicini di Grevo, ma territorio comunale di Saviore, a mezzanotte in punto entra per la porta una vecchia signora (colei che lasciò l’eredità ai Grevesi), la quale fa girare la caldaia sul perno e poi si ritira. Nessuno ha mai osato interrogarla.
In un bait tra Cevo e Saviore abita una strega fantastica, chiamata La donna del giuoco. Dalla baita si udrebbero uscire canti, urli, suoni come durante una giostra e chi osasse avvicinarsi vedrebbe un lume in basso quando si trova in alto; in alto quando si trova in basso.
A queste leggende si collega, in gran parte spiegandole, quella della Pitachina, narrata dalla madre di Lorenzo Cervelli[19] con una filastrocca.
“Quanche la cumpagnia la rua al dos de Re la “Pitachina” la alsa so al pè; quanche la cumpagnia la rua al dos de Brata la “Pitachina” la ghigna che la crapa; quanche la cumpagnia la rua al dos de la Roca la “Pitachina” la sa copa”.
Quando la compagnia arriva al dos del Re, la Pitachina alza il piede. Quando la compagnia arriva al dos de Brata, la Pitachina ride a crepapelle. Quando la compagnia arriva al dos della Roca, la Pitachina si uccide.
La Pitachina, secondo la leggenda, era una strega che arrivava da Andrista con la “compagnia” e si dirigeva verso il Dos Merlino, passando dal Dos del Re, località tra Fresine e Zimilina di Cevo, dove in inverno le donne di Fresine venivano e vengono tuttora a scaldarsi al sole (a Fresine il sole non arriva da fine ottobre al 13 gennaio). Il Dos de Brata è il dosso Merlino. Quando la Pitachina arrivava sul Dos de la Roca (posto sul crinale tra Cevo e Sonico) la Pitachina si uccideva. [20]
Torniamo a Peta.
In località Peta troviamo molti reperti megalitici, tra i quali le pietre o scivoli della fertilità.
“Le pietre della Madre Terra – scrive Gimbutas – dotate del potere di concedere la fertilità alle donne sterili hanno una superficie levigata. In Germania e nei paesi scandinavi una pietra piatta con le superfici levigate è chiamata Brautstain, o pietra della sposa. Le giovani spose vi si sedevano sopra o vi si strusciavano per avere fertilità. La glissade, “scivolata” in francese, praticata segretamente in Francia nel XVIII e XIX secolo, richiedeva il contatto delle parti posteriori con la pietra. Le pietre inclinate si prestano meglio a questo scopo. La continua ripetizione della cerimonia da parte di numerose generazioni ne ha levigato le superfici”. [21]
Il basilisco nella Àl dé Póss
Il sentiero prosegue verso la Àl dé Póss.
Póss è un lago, una pozza, una cavità piena d’acqua. Pi (inglese) fossa tomba- Pfütze (tedesco) pozzanghera – Bütte (tedesco) mastello. Pithoi = come urna – Pithos = Orcio. Ragionevolmente Àl dé Póss è valle delle pozze
Nella Àl dé Póss, che sale dal Serio verso il monte Erbia, dove ora sorge una santella dedicata alla Madonna, la tradizione vuole dimorasse il basilisco, i cui occhi sarebbero scavati nella pietra che sovrasta la cappelletta.
Il basilisco, “piccolo re”, presente nelle tradizioni di molti luoghi dell’arco alpino, è una chimera che nasce da un uovo di serpente covato da un gallo. Il basilisco ha coda di serpente, testa d’ariete e corna di mucca ed è il risultato simbolicamente sincretico dell’antico culto del serpente, ovvero della Dèa Madre, ereditato, inglobato e strasformato (covato) dai Celti indoeuropei, portatori di culti solari.
La simbologia è netta e non lascia spazio ad equivoci: il serpente è associato alla Dèa Madre, mentre il gallo è simbolo solare, in quanto annuncia il sorgere dell’astro al mattino.
Il basilisco è, dunque, simbolicamente, la sintesi di due culture: quella del Neolitico, matrilineare e connotata dalla Dèa, spesso rappresentata come serpentiforme e quella indoeuropea, patrilineare e solare.
Del basilisco troviamo numerose testimonianze nel folklore.
G.P. Salvini (Giornale di Brescia) descrive il misterioso animale come “corto e tozzo come un salame, con o senza zampe” e ricorda come il suo sguardo incanti e il suo alito velenoso “strini”[bruci] l’erba: “tutto l’aspetto fa raggrinzire la pelle, riduce i capelli irti come il riccio di un castagno”.
Le denominazioni del basilisco sono fra le più diverse: basilisc (a Casnigo in Valle Seriana), badilisc (a Cevo, in Valle Camonica), bés fuì, bés galilì (in Franciacorta e a Nuvolera, nel sito megalitico denominato El sércol), Carbon (in Carnia), Talzelwurm o Stollwurm (in Austria e in Svizzera) e, in termini scientifici, “Eloderma europaeum”, parente dell’Eloderma sospectum, un lucertolone velenoso dei deserti americani, altrimenti chiamato Gila. Un nome, quello scientifico, che fu attribuito al basilisco da uno zoologo austriaco, dopo che i giornali degli anni Trenta ne avevano parlato, descrivendolo come lungo dai 50 ai 90 centimetri, con una coda corta e brevi zampe, tozzo, dal carattere aggressivo e dallo sguardo malevolo.
Dell’animale si dovette interessare, ricorda il Salvini, anche il Ministero dell’Agricoltura austriaco e nel testo di Willi Ley: “Leggende e storie di animali”, edito da Bompiani nel 1951, (la citazione è del Salvini), vengono riportate le testimonianze di chi il basilisco lo avrebbe visto e fotografato per davvero.
Del basilisco si parla anche nel terzo numero di “Brescia rivista”, il mensile diretto da Carlo Agarotti per i tipi dell’editrice Rothari di Leno. In questo caso al serpente si associa la Bissaboga (strada curvata) e il Besolà (da cui ‘mbesolat, attorciliato) o Bossolà, un dolce tipico della pasticceria bresciana.
Se il serpente-drago ha la testa d’ariete con le corna di mucca, ciò potrebbe ragionevolmente significare che il mito che lo riguarda sia nato per indicare che il tempo a cui si riferisce è quello nel quale la Testa del Drago (equinozio di primavera) era simile all’Ariete (Era dell’Ariete) quando questo aveva ancora le corna di mucca o del toro (Era del Toro). Siamo quindi in un periodo vicino al passaggio dall’Era del Toro a quella dell’Ariete. L’epoca in questione è 2220 a.C. (Toro dal 4.380 a.C. al 2.220 a.C. e Ariete dal 2.220 a.C. al 60 a.C.).
Il serpente con testa di capra o di mucca trova un riferimento anche nel Kernunnos, (il Dio Cornuto o Dio Cervo), come del resto dimostra anche un graffito in località Naquane (Valle Camonica), che raffigura il dio Cernunno con accanto un serpente e con un torquis appeso al braccio destro. Il graffito è attribuito da Emmanuel Anati ad un periodo che va dal 1100 al 16 avanti Cristo (ultimo periodo di produzione dei graffiti camuni).
Il Cernunnos camuno è il celtico Lug, il luminoso, il quale, nella Caldaia di Gundestrup, viene raffigurato con le corna di cervo, un torquis nella mano destra e un serpente con testa d’ariete nella mano sinistra.
Il simbolo del serpente è universale, in riferimento all’energia creatrice, all’eterno ciclo della trasformazione (vita-morte) ed alla conoscenza.
Non è questa la sede per affrontare compiutamente la complessa simbologia del serpente, della quale è, tuttavia, necessario affrontare l’aspetto che lo associa alle forze ctonie, alla Terra, alle cavità, a tutto ciò che è sotterraneo, perché questo aspetto ci conduce all’aspetto serpentiforme della Dèa, come possiamo riscontrare nella basca Mari, nella cinese Nu Kua, nella Kunapipi dell’Oceania, nell’africana Muso Koroni o, ancora, nella Melusina (Mére Lusine, ovvero Lugine, Lusine, la paredra di Lug).
La Dèa serpente e il wouivre
Il basilisco è il re dei serpenti, il serpente coronato e nel “Neolitico – fa notare Marija Gimbutas – le raffigurazioni della dea-serpente portavano spesso un copricapo, come una specie di corona. Questa caratteristica rivive nel folklore baltico e in altre zone del nord Europa, attraverso la credenza che alcuni serpenti compaiano coronati; queste corone sono simboli di speranza e di ricchezza. Le narrazioni popolari dicono che chi lotta con un gigantesco serpente bianco otterrà una corona. La corona rende onniscienti, rende capaci di vedere tesori nascosti e di comprendere il linguaggio degli animali. Il serpente coronato è la regina: alcune favole raccolte trecento anni fa narrano di centinaia di serpenti al seguito di un serpente coronato. Queste reminiscenze della sacralità dei serpenti rievocano chiaramente – ci ricorda Marija Gimbutas – la dea serpente del Neolitico”. [22]
Il tema del serpente è strettamente connesso con quello del wouivre, che nella tradizione druidica è lo spirito tellurico, il quale, come un serpente, striscia lungo la terra e agisce in profondità, portando la vita e la fertilità.
Ci sono luoghi in cui questo flusso nascosto raggiunge la superficie generando un collegamento tra il cielo e la terra.
“Questa particolare forza o spirito tellurico si manifesta in determinate circostanze soprattutto in presenza di corsi d’acqua sotterranei, dai quali si sprigiona una forza magnetica, o nei punti della crosta terrestre in cui, per la presenza di faglie e di fratture, diversi tipi di roccia si mescolano fra loro, oppure ancora, stando agli antichi, in luoghi dove gli dèi avevano dato segno della loro immanenza. ….. Questi, in genere, i luoghi dove le forze telluriche più potenti – manifestazione palpabile dello spiritus mundi o spirito della terra – può essere avvertito, sentito. Lo spiritus mundi racchiude in sé un’energia così prepotente da essere capace di ridestare l’uomo alla vita dello spirito. Questa situazione speciale era già riconosciuta ampiamente dai sacerdoti druidi …“.[23]
Quelli dove si manifesta il wouivre sono punti che provocano “in un essere umano la capacità di avvertire un’espansione eterica, ossia un autentico “stato di grazia”, un’energia poderosa …”. [24]
Il wouivre nasce dal movimento delle acque sotterranee e delle faglie del terreno che hanno messo in contatto dei suoli di natura diversa, o sorgono dalle profondità del magma terrestre (come il basco Sugaar, il serpente di fuoco – radice *su, paredro della Dèa Mari). A volte le wouivre sono delle forze che attraversano il cielo, delle correnti magnetiche che in certe situazioni ben precise vanno a incontrare in un modo particolarmente benefico l’azione delle correnti telluriche e creano un luogo privilegiato, che i druidi segnavano con un menhir o con un dolmen.
Il o la wouivre nella tradizione diventa la vouivre (vipera), creatura fantastica, un genere di drago alato, il cui formato, secondo le varie tradizioni, è mutevole: da alcuni centimetri, alla lunghezza di parecchi metri. Fornito raramente di piedini, ha sempre due grandi ali. Ma la cosa che lo caratterizza particolarmente è che trasporta sulla faccia, o in una cavità del cranio, o alla conclusione di una sorta di antenna, una pietra di inestimabile valore, generalmente un rubino, chiamato “escarboucle”, a volte un diamante. La pietra è di una luce vivida e quando il wouivre vola alla notte, lascia una traccia di fuoco. L’escarboucle a volte è nascosto nelle canne dell’ansa di un fiume o di un lago mentre il wouivre pesca e può essere rubato da un ladro particolarmente audace. Per il resto del suo tempo il wouivre veglia sui tesori sotterranei.
A Zogno, in Val Brembana, nel museo, creato da don Giulio Gabanelli, è conservata una raffigurazione lignea del serpente con una boccia d’oro in bocca, perfettamente corrispondente tradizione del wouivre.
Il wouivre passa la più gran parte del tempo sotto terra. Il suo riparo può essere un foro che apre lui stesso nella la terra, una caverna a lato di una scogliera, o il sotterraneo di un castello in rovine. Ma frequenta anche agli ambienti acquatici: il fiume calmo che brilla sotto il fogliame, lo stagno pacifico nel mezzo di un bosco, la fonte che scorre sotto l’erba o che si riversa in un bacino della pietra; apprezza i posti poco abitati come le paludi, le caverne. A volte è in una fontana nel cuore di un villaggio. È là che berrà o si bagnerà.
Il wouivre non è un animale vagabondo; ha le sue abitudini e i suoi spostamenti sono limitati. A volte vola da una rovina ad un’altra, si avviluppa su un campanile o vola sul pelo dell’acqua. Le sue uscite sono regolari ed esce tutte le sere ad ore fisse. In Francia, a Avoudrey, esce solamente una volta all’anno, a Natale. A Mouthier è ancora più preciso: esce elle 11 di sera. Se non lo si provoca il wouivre non è un animale pericoloso. Obbediente agli impulsi della natura, rimane indifferente al mondo degli uomini, ma se si tenta di rubargli il suo diamante diventa immediatamente furioso e attacca chi la vuole depredare.
E’ quanto accadeva a Zogno, in Val Brembana, secondo la leggenda del serpente (drago) della Corna Rossa, che i vecchi dicono di vedere ancora volare tra le cime. Il serpente usciva di notte dalla sua tana sulla Corna Rossa dopo essersi fermato a bere all’antica fonte del Boér, presso Inzogno. Si dice che i giovani del paese seguissero il serpente alla fonte, con una padella per catturarlo e rubargli la boccia d’oro, ma accadeva sempre che i giovani venissero all’istante pietrificati.
Il wouivre è presente anche a Cevo (Valle Camonica), nella forma di serpente della “preda” (della pietra), visibile, secondo la tradizione, tra i boschi nella zona della Pineta. Dalla tradizione si evince che nei pressi della sorgente Antigola, una delle più antiche del luogo, dove l’acqua sgorga sempre alla stessa temperatura, girasse un serpente con un diamante (una pietra luminosa) in bocca, chiamato dalla popolazione Sèrpent dè la préda. Va a questo proposito ricordato che tra le popolazioni delle alpi francesi e svizzere si narra di serpenti e di draghi volanti con una pietra in fronte, che di notte volano tra le cime dei monti e di giorno si riparano in grotte naturali. Secondo tradizioni celtiche ai serpenti volanti crescevano le ali con l’invecchiamento e si trasformavano in draghi. Alcuni draghi alati avevano corpo leonino.
Sopravvivenze basche nelle Alpi
Sempre riguardo a Cevo, D.A.Morandini scrive: “Una antica tradizione dice che vi esistessero, sotto la Cappella dell’Androla, delle cave di rame, chiamate ramine. La Cappella dell’Androla è forse il miglior belvedere di tutta la Valle Camonica. Esaurite ed abbandonate le cave di rame rimasero le gallerie profonde e paurose. Ebbene: quel popolo che immaginò un serpente dall’anello d’oro, a cui nessuno osò mai avvicinarsi perché annientava collo sguardo, popolò anche quelle gallerie di streghe. Queste fantastiche creature paurose, durante l’infuriare dei temporali, uscivano dai loro domini sotterranei e ballavano sotto le intemperie, sui prati dell’Androla le più strane ridde infernali”.[25]
Ora, va notato che nella lingua dei Baschi, che ripopolarono l’Europa dopo l’ultima glaciazione e che si spinsero anche sulle Alpi, “andre” significa donna, signora: un titolo che spettava a Mari, per cui Androla potrebbe ragionevolmente essere un luogo legato ad Andre, alla Signora.
Mari, “la Signora”, “la Dama”, Andre, dèa che vive nelle regioni abissali, ha forme diverse: nelle regioni sotterranee ha aspetto serpentiforme; in superficie appare come una donna bellissima, elegantemente vestita, in atto di pettinarsi con un pettine d’oro.[26] Vestita con eleganza (a Lercuns ha una gonna rossa), Mari ha lacune volte nelle mani un palazzo d’oro.[27]Nella sua casa a Aketegui ci sono letti d’oro, a Otsabio c’è una statua di un toro d’oro, a Airobi beltz si siede su una poltrona d’oro, a Otsibarra c’è un pettine d’oro che le apparteneva. Una manciata di carbone può trasformarsi in oro all’uscita della sua grotta. Mari ha i piedi d’uccello o di capra (a volte). Può essere pianta, roveto ardente, caprone, corvo, cavallo o giovenca, avvoltoio, raffica di vento, nuvola, arcobaleno, globo di fuoco, donna la cui testa ha come aureola la luna piena, falce infuocata che attraversa il firmamento. [28] Mari, dunque, è cielo, terra, luna e ha le caratteristiche (piedi d’uccello, corpo di serpente) della Dèa Madre del Neolitico.
La grotta, il serpente dall’anello d’oro, il toponimo Androla sono dunque elementi che ci riconducono a Mari, alla Dèa Madre dei Baschi e al suo paredro Sugaar o Soughe.
I Baschi, scrive Augustin Chaho, nella sua ricostruzione mitologica, “vedono nel fuoco centrale del globo il principio creativo e l’agente rinnovatore della terra: gli hanno dato il nome di Soughe, Serpente di Fuoco e Leheren (Lehen heren), Primo-Ultimo. Questo mito, emblema della lotta della natura, è lo stesso Leherenus, il Dio della guerra degli antichi Novempopulaninens”.[29] I veggenti euskariens, secondo Chaho, avevano scoperto i cicli delle eruzioni e il Grande Serpente è colui che solleva le montagne e getta la struttura interiore, la materia fusa, alla superficie.
“Leheren-Soughe dormiva, girava su se stesso, nel lago interno, lo stagno di fuoco, la sua respirazione profonda faceva muggire gli echi dell’inferno; l’uovo-mondo che gli serve da inviluppo sembrava pronto a rompersi ai movimenti convulsivi che agitavano il mostro durante la sua letargia. Infine l’angelo di Iao lasciò cadere nell’oceano la sessantesima goccia d’acqua dalla sua clessidra che segna il tempo, proclamò la fine e la consumazione dei secoli e suonò le sette trombe di bronzo. A questo segnale Leheren, il Grande Artefice di Dio si svegliò e sorgendo dalle sue caverne, aprì le sette gole spalancate dalle quali sorgono i vulcani: in dieci giorni egli consumò e divorò la vecchia terra, e dalla sua lunga coda, più abile di quella di un castoro, plasmò la terra nuova nelle acque del Diluvio; poi terminata la sua opera, il dragone, come il baco da seta che costruisce la sua prigione, si girò su se stesso e si riaddormentò, cullato giorno e notte da quattro geni, attendendo il risveglio dei secoli e l’aurora dei tempi nuovi. Tuttavia, una moltitudine di uomini e di donne, spaventati dalla fine del mondo, si erano rifugiati sulle montagne; furono mutati in pietre: questa metamorfosi durò dieci secoli, dopo di ché essi furono restituiti alla loro forma precedente dal canto divino di un uccello luminoso”[30] e ripopolarono l’Europa.
Notiamo, ancora, come il serpente fosse sacro alla celtica Dèa Brigit. La Dèa Brigit, verso primo febbraio (Imbolc), come ci ricorda Marjia Gimbutas, compare come un serpente della collina.[31] Il risveglio simbolico dei serpenti dall’ibernazione si verificava intorno al primo febbraio. In Scozia si credeva che un serpente emergesse dalle colline durante Imbolc, il “Giorno della Sposa”, ossia di Brighit. [32]
Inoltre la Dèa Madre, sempre secondo Marjia Gimbutas, assume l’aspetto zoomorfo di serpente o di uccello sin dal Neolitico. “La caratteristica connessione del serpente con l’ariete, animale sacro alla Dèa Uccello, risulta da immagini di serpenti dotati di corna o con testa di ariete, e dall’intercambiabilità delle corna di ariete con le spire di serpente”.[33]
L’immagine della Dèa serpente è facilmente riconoscibile nell’arte celtica.
Infine, i Druidi in Galles chiamavano se stessi Nadredd, ossia serpenti, in quanto legati alla sapienza ancestrale.
La Trinità
Sul lato a monte del percorso, a est, sorge il santuario della Trinità, gestito fino a pochi decenni or sono da una Confraternita della Trinità, fondata nel 1500 circa, i cui membri vestono di bianco con un mantello blu.
Il santuario della Trinità, ai fini di questo articolo, è interessante per la presenza di un culto per l’immagine di una Madonna della fertilità. Ancora in tempi recenti le donne andavano a chiedere la fertilità alla quattrocentesca Madonna con il bambino.
L’edificio, risalente al 1.100 è sorto su un precedente luogo sacro e ospita uno dei più famosi dipinti del Baschenis: un Giudizio universale di rara bellezza.
La Madonna d’Erbia
Infine, il percorso antico giunge alla località dove attualmente sorge il santuario dedicato alla Madonna d’Erbia, eretto a seguito di alcune apparizioni.
Nella descrizione della prima apparizione della Madonna d’Erbia, redatta dal parroco di Casnigo, Bernardo Donadoni ed edita nel 1929, si legge :”Una tradizione antichissima ha portato fino a noi il fatto seguente: Fino all’anno 1550 esisteva sul versante di sera del monte d’Erbia, una casa, di cui s’ignora il proprietario, costituita da una stalla sottoposta e dal fienile superiore, al quale si accedeva da mattina direttamente dal monte a mezzo di un piano formante parte di un sentiero consorziale che vi transitava. Nell’asportazione del muro laterale all’Immagine fatto di recente, si rinvennero gli avanzi corrosi dell’architrave di questo antico e primo ingresso al fienile. Sul fianco sinistro di questo medesimo ingresso, stava dipinta sul muro una Immagine rappresentante la Maternità di Maria Vergine che si constatò essere stata opera di quel pio e rinomato pittore di Clusone che fu Giacomo Brusca, nella metà del secolo antecedente, autore di molte altre Immagini, fra le quali quella che si venera nel vicino Santuario di Ponte Nossa. La gente che di là passava per recarsi a’ suoi svariati lavori sia in Erbia bassa, sia sulle cime di Erbia alta, rapita da una spiegata amabilità che traspariva del volto di quella benedetta Immagine, prese a salutarla, a pregarla, ad invocarla, e vedevasi ne’ suoi voti esaudita e nei bisogni soccorsa. Si sparse allora la fama che quella era un’immagine miracolosa, e come succede in tali casi, vi fu tosto un accorrere di gente numeroso e continuo. Se ne avvide e se ne impensierì il proprietario di quella stalla, e vedendo da quella frequenza venire danno a’ suoi raccolti , a’ suoi prati circostanti, pensò provvedere al suo interesse nel modo più strano, per non dire empio. Forse più volte ebbe prima di lottare con sé stesso, ebbe a respingere da sé la vile tentazione, ma finalmente la vinse il demone dell’interesse. Una sera, dei primi giorni di agosto del 1550, quando la notte stava per distendere il nero suo velo sulla intera natura, quel proprietario, armata la convulsa mano di una zappa campestre, coll’occhio livido e torvo, col cuore in grande burrasca, s’avvicina col piè tremante alla santa e venerata Immagine, che nella pacifica sua amabilità parea a lui dicesse: “amice ad quid venisti? Amico a che fare sei venuto?” non curando forse i clamori della moglie, lo stridore dei figli, che accortisi del truce disegno l’avevano seguito cercando invano di distoglierlo, mena sopra la santa Immagine colpi spessi e violenti così, che in breve tempo essa cede e cade sfracellata al suolo, lasciando ancora di sé sul muro alcune poche tracce, sfuggite, nella penombra, al cieco furore dell’incollerito villano… Quel Dio che fa tutto cooperare al bene …… dispose …. che ove era stata abbattuta la prima, una seconda Immagine apparisse, nel medesimo luogo, del medesimo soggetto, della medesima amabilità, e che la mattina seguente si vedesse integra e illesa dallo stesso proprietario con grande meraviglia e stupore suo e di quanti accorsero ad ammirare quella nuova apparizione. …… L’Immagine che oggi si venera in quel Santuario è precisamente quella che miracolosamente appariva la notte dell’Agosto 1550, e meno qualche avaria sofferta dalla luce, dall’inclemenza delle stagioni e dalle intemperie…..”.
Per molti anni quanto rimaneva della vecchia immagine rimase invisibile, ma nel 1880, la nuova immagine, divenuta precaria a causa dell’umidità, fu staccata e consolidata da Giuliano Volpi di Lovere e collocata in un luogo vicino, lasciando di nuovo in luce i lacerti del vecchio dipinto.
E’ a questo punto che alla vecchia immagine vennero inflitte ulteriori mutilazioni.
“L’antica Immagine – scrive Donadoni – che era stata guastata e quasi demolita dal ferro del proprietario, per ispirito di avarizia, nell’anno 1550 ….. doveva ricevere anche un secondo sfregio nell’anno di grazia 1880, questa seconda volta però ispirato di malintesa pietà. Ecco come avvenne il deplorevole fatto. Affrancata ed incorniciata la nuova Immagine …. venne deposta nel luogo primitivo a un metro però di distanza dal muro dal quale era stata distaccata, affinché potesse mediante ventilazione nell’estate vicina ben asciugarsi e consolidarsi. Dietro di essa restavano ancora attaccati al vecchio muro, coperti però da un velo, gli avanzi dell’antica Immagine frantumata, con qualche resto di petto e di faccia della Beata Vergine nella quale ancora ben si distingueva un occhio, il più espressivo, un occhio di paradiso. Tanto poi la vecchia che la nuova Immagine ristaurata erano chiuse entro il cancello di ferro e gelosamente custodite. In occasione della seconda festa di Pentecoste dell’anno istesso 1880, fra i numerosi concorrenti al Santuario d’Erbia, fuvvì una compagnia di devote donne che sapendo il fatto della scoperta dell’antica Immagine, che allora correva sulla bocca di tutti, venne presa dalla curiosità di vederla. Ciò che avrebbero potuto ottenere in modo lecito ed onesto dietro domanda al Romito presente, conseguire vollero in modo illecito ed arbitrario. Colta la favorevole occasione che il suddetto Romito o Custode aveva dimenticata la chiave nella toppa del cancello, e che egli stesso era stato chiamato nella sagristia a distribuire immagini e panni benedetti, penetrarono pian piano nel cancello, scoprirono la vecchia immagine e non contenti di averne contemplati gl’informi avanzi, diedero mano a un coltello e colla punta di esso cavarono e levarono alla mal capitata Immagine l’occhio che Le era rimasto incolume dal primitivo vandalismo e che, come si disse, conservava ancora si bene l’impronta della dolcezza e amabilità della Madonna, e per di più asportarono anche una piccola porzione del petto……. Siccome però con questo secondo atto di devoto vandalismo si erano in parte distrutti i caratteri di rassomiglianza della vecchia con la nuova Immagine, e perciò si infermavano alquanto le prove così luminose dell’antica tradizione, si trovò necessario di formulare atto di deposizione nell’Ufficio Comunale di Casnigo, che cerziorasse ai posteri il non lodevole fatto”.
Un antico luogo sacro a Brighit
L’ipotesi è che il luogo nel comune di Casnigo, in Valle Seriana (Bergamo) dov’è comparsa per due volte, in epoche diverse, la Madonna d’Erbia, sia un antico luogo di culto dedicato alla Dèa Brighit, al quale si accede lungo un percorso dedicato alla Dèa Karidwen, (Diana Holle, Freja, Perchta) e sia la parte più significativa di una vasta area sacra dell’antica Parra.
La località in esame è denominata Erbia o Monte Erbia e se cerchiamo il significato etimologico del toponimo in ambito gaelico, troviamo, nelle lingue gaeliche irlandesi e gallesi e nel bretone, che l’area semantica si restringe a significati che tradotti nella nostra lingua sono: credere, fare assegnamento, intercedere, raccomandarsi, far ricorso, confidare.
Nella lingua bretone i termini: erbed, erbedadur, erbedden, erbeder, erbedet, erbediñ significano raccomandazione, intercessione, ricorso; erbeder (ien) è l’intercessore.
Nelle altre lingue gaeliche (irlandese, gallese) earb corrisponde al verbo inglese trust, ossia credere, far assegnamento, confidare. In antico irlandese erbaim è confidare. In gallese troviamo erfyn con il significato di pregare, implorare e erfyniad con il significato di preghiera, petizione.
L’etimologia del toponimo, dunque, potrebbe indicare un luogo di preghiera, nel quale chiedere l’intercessione del divino; un luogo dove ci si raccomanda, ci si affida, si implora, si prega, si esprimono petizioni.
Non è, dunque, un caso che la tradizione popolare abbia collocato in questo luogo ben due apparizioni della Madonna cristiana, essendo Erbia, come rivela il significato del toponimo, un luogo da tempo immemorabile sentito come spazio dove si accede al sacro.
Marjia Gimbutas, nel suo “Il linguaggio della Dèa”, scrive di una dèa celtica denominata Verbeia (quella del bestiame), dalla radice irlandese *ferb. Questa divinità è anche associata alla sorgente e alla Dèa Brigit.
Come per quanto s’è detto al riguardo della strega, della Ria da Pì, va considerato che il compagno di Diana, come di Artemide, era Ippolito, il quale, calpestato dai cavalli di Poseidone venne resuscitato, per intercessione della Dèa, da Esculapio. Per sottrarlo alle ire di Poseidone, la Dèa lo invecchiò e lo nascose nel folto del bosco, con il nome di Virbio.
Ippolito-Virbio, che ritroviamo cristianizzato con il nome di Sant’Ippolito, ebbe un figlio che portò il suo nome, rappresentando, in questo modo, il ciclo naturale del vecchio re che lascia il posto al nuovo, ovvero della natura vegetale che si rinnova con il procedere delle stagioni. Virbio diede origine ad una successione di sacerdoti di Diana, chiamati Re del bosco. Virbo e Verbeia hanno qualche interessante assonanza con Erbia.
Interessante anche la radice indoeuropea *bher, partorire (da cui to born, inglese = nascere), con la b che facilmente si trasforma in f.
A Vertova (Érfa), il luogo, come già ricordato, da dove inizia il percorso sacro che conduce a Erbia, c’è una via che collega il cucuzzolo sul quale è stata edificata la chiesa con un monastero. Questa antica via si chiama Via Druda, perché, secondo la tradizione, era percorsa dai druidi (irlandesi) che soggiornavano in queste zone.
Tra Érfa e Erbia non c’è molta differenza. La b e la f si scambiano facilmente, come la b, la f e la v. Erbia, Erfia, Erfa , Ervia, ecc.
Dobbiamo soffermarci ora sulla data nella quale sono avvenute le due apparizioni e nella quale viene celebrata la festività della Madonna d’Erbia: il 5 di Agosto.
Nel mondo celtico, il primo di agosto cadeva Lughnasad e si celebravano le nozze tra Lug (luce) e Erinne (terra), che venivano festeggiate con giornate di fiere e banchetti[34]. Lughnasad è la festa che Lug ha dedicato alla madre terrena Tailtiu. Il periodo di Lugnasad dura una quindicina di giorni, è legato alla levata eliaca di Sirio e, come tutte le festività celtiche, al ciclo della luna. Il 13 agosto, come abbiamo visto, a proposito della strega della Ria da Pì, era giorno dedicato a Diana.
A proposito delle date del primo febbraio (Imbolc), primo maggio (Beltane), primo agosto (Lughnasad) e primo novembre (Samhain), Riccardo Taraglio (Il vischio e la quercia) osserva che oggi “tali date sono in ogni caso approssimative perché, dovendole adattare al nostro calendario, secondo J.King corrisponderebbero meglio il 6 novembre, il 6 febbraio, il 6 maggio e il 6 agosto, tenendo conto che la durata di ciascuna celebrazione variava da pochi giorni a un mese intero (come per Lughnasad)”.
Se poi consideriamo che per i Celti il giorno cominciava al tramonto, possiamo ben capire che la data attuale del 5 agosto per la Madonna d’Erbia è perfettamente sovrapposta all’inizio delle celebrazioni di Lughnasad.
Lughnasad (assemblea di Lugh), nella tradizione irlandese era stata istituita dallo stesso Lugh “per commemorare la madre adottiva Tailtiu (etimologicamente il nome della terra fertile, la dea che offre il proprio corpo per il sostenamento del popolo, oltre che essere uno dei nomi dell’Irlanda…”. (Taraglio, op.cit.). “In Valle d’Aosta – sottolinea Taraglio – le celebrazioni dedicate alla Madonna delle Nevi, il 5 agosto, in cui le popolazioni di valli confinanti si incontrano, non sono altro che un’antica memoria di questa festa celtica”. (Taraglio, op.cit.).
Nei mesi di agosto e di settembre le festività legate alla Madonna sono più presenti che in altri periodi. Siamo, infatti, nel periodo in cui la terra dà i suoi frutti, paragonabili alla maternità, e per il mondo celtico possiamo riassumere le varie forme in cui la Dèa Madre poteva essere rappresentata con quelle della Dèa Keridwenn.
Il 5 di agosto cade anche la
festività della Madonna della Neve, che affonda le sue origini nei primi secoli
della Chiesa ed è strettamente legato al sorgere della Basilica di S. Maria
Maggiore in Roma. Nel IV secolo, sotto il pontificato di papa Liberio
(352-366), un nobile e ricco patrizio romano di nome Giovanni, insieme alla sua
altrettanto ricca e nobile moglie, non avendo figli decisero di offrire i loro
beni alla Santa Vergine, per la costruzione di una chiesa a lei dedicata.
La Madonna gradì il loro desiderio e apparve in sogno ai coniugi la notte fra
il 4 e il 5 agosto, tempo di gran caldo a Roma, indicando con un miracolo il
luogo dove doveva sorgere la chiesa.
Infatti la mattina dopo, i
coniugi romani si recarono da papa Liberio a raccontare il sogno fatto da
entrambi, anche il papa aveva fatto lo stesso sogno e quindi si recò sul luogo
indicato, il colle Esquilino e lo trovò coperto di neve, in piena estate
romana.
Il pontefice tracciò il perimetro della nuova chiesa, seguendo la superficie
del terreno innevato e fece costruire il tempio a spese dei nobili coniugi.
Questa la tradizione, anche se essa non è comprovata da nessun documento; la chiesa fu detta ‘Liberiana’ dal nome del pontefice, ma dal popolo fu chiamata anche “ad Nives”, della Neve.
L’antica chiesa fu poi abbattuta al tempo di Sisto III (432-440) il quale in ricordo del Concilio di Efeso (431) dove si era solennemente decretata la Maternità Divina di Maria, volle edificare a Roma una basilica più grande in onore della Vergine, utilizzando anche il materiale di recupero della precedente chiesa.
Qualche decennio dopo, le fu dato il titolo di Basilica di S. Maria Maggiore, per indicare la sua preminenza su tutte le chiese dedicate alla Madonna. Dal 1568 la denominazione ufficiale della festa liturgica della Madonna della Neve, è stata modificata nel termine “Dedicazione di Santa Maria Maggiore” con celebrazione rimasta al 5 agosto; il miracolo della neve in agosto non è più citato in quanto leggendario e non comprovato, ma il culto per la Madonna della Neve, andò comunque sempre più affermandosi, tanto è vero che tra i secoli XV e XVIII ci fu la massima diffusione delle chiese dedicate alla Madonna della Neve.
Nella basilica si venera una statua di Maria denominata Salus populi romani.
I colori della Dèa.
Un’ultima notazione riguarda i colori della Dèa.
Il blu era colore sacro alla Dèa Ceridwenn, o Karidwen, ossia la Dèa bianca. Il blu/verde è il colore che il mare assume al tramonto del sole, quando il cielo si oscura e compare la luna.
Il bianco, il rosso e il blu/verde sono i colori tradizionalmente legati alla Dèa Madre.
Nel Galles a Dwygyfylchi si trovano infisse tre pietre nel terreno chiamate le tre donne: una bianca, una rossa, una blu.
Il bianco, in nero e il rosso erano i colori di Iside.
Il bianco il rosso e il blu sono anche i colori della Madonna d’Erbia.
Il dipinto quattrocentesco dedicato alla Madonna cristiana, distrutto e ridipinto, mostra Maria che allatta il divino bimbo e i colori dei suoi vestiti sono il bianco, il rosso e il verde/blu.
E’ del tutto evidente che il luogo dove è comparsa la Madonna cristiana è lo stesso luogo dove la devozione popolare si rivolgeva alla Déa Madre Universale, che nei millenni ha rivestito numerose forme.
© Silvano Danesi
[1] L’oppidum degli Orobi a Parre (Bg) a cura di Raffaella Poggiani Keller, Edizioni ET
[2] L’oppidum degli Orobi a Parre (Bg) a cura di Raffaella Poggiani Keller, Edizioni ET
[3] L’oppidum degli Orobi a Parre (Bg) a cura di Raffaella Poggiani Keller, Edizioni ET
[4] L’oppidum degli Orobi a Parre (Bg) a cura di Raffaella Poggiani Keller, Edizioni ET
[5] Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Edizioni Età dell’Acquario
[6] R. Graves, La Dèa bianca, Adelphi
[7] Franco Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee, Palombi.
[8] Franco Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee, Palombi.
[9] Franco Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee, Palombi.
[10] R. Graves, La Dèa bianca, Adelphi
[11] James G.Frazer, Il ramo d’oro, Boringhieri
[12] Massimo Centini, Le bestie del diavolo, Gli animali e la stregoneria tra fonti storiche e folklore, Rusconi, Milano, 1998
[13] Carlo Ginzburg, I Beneandanti, Einaudi
[14] Massimo Centini, Le bestie del diavolo, Gli animali e la stregoneria tra fonti storiche e folklore, Rusconi, Milano, 1998
[15] Massimo Centini, Le bestie del diavolo, Gli animali e la stregoneria tra fonti storiche e folklore, Rusconi, Milano, 1998
[16] Laura Rangoni, Le fate, Xenia
[17] Massimo Centini, Le bestie del diavolo, Gli animali e la stregoneria tra fonti storiche e folklore, Rusconi, Milano, 1998
[18] Daniela Rossi,
[19] Autore con Silvano Danesi de: “Il canto della roccia”, Edizioni Clanto, Brescia, 2007
[20] Citazioni tratte da: Silvano Danesi – Lorenzo Cervelli , Il canto della roccia, edizioni Clanto, Brescia 2007
[21] M.Gimbutas, Il linguaggio della Dèa, Venexia.
[22]Marija Gimbuta, Le dee viventi, Medusa.
[23]Tim Walleace Murphi, Il codice segreto dei Templari, Newton Compton
[24] Tim Walleace Murphi, Il codice segreto dei Templari, Newton Compton
[25] D.A. Morandini – Folklore in Val Camonica – Tip. Camuna – Breno – 1927
[26] E’ interessante notare, a questo proposito, come la Dèa madre degli Sciti abbia coda di serpente. Vedi: Pietro Citati, La luce della notte, Mondadori
[27] Augustin Chaho, Histoire de Basques, Imprimerie e Lithographie de P. Lesper, Bayonne, 1847
[28] Vedi Louis Charpentier, Il mistero basco, Edizioni Età dell’Acquario
[29] Augustin Chaho, Histoire de Basques, Imprimerie e Lithographie de P. Lesper, Bayonne, 1847
[30] Augustin Chaho, Histoire de Basques, Imprimerie e Lithographie de P. Lesper, Bayonne, 1847
[31] Marjia Gimbutas, Il linguaggio della Dèa, Venexia
[32] Marjia Gimbutas, Il linguaggio della Dèa, Venexia
[33] Marjia Gimbutas, Il linguaggio della Dèa, Venexia
[34] Alfredo Cattabiani, Calendario, Rusconi
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