Da ©Silvano Danesi “Tu sei pietra” (www.ilmiolibro.it)
Escu, in eskuara (euskera, uscara) ossia in lingua basca, vuol dire mano. L’eskuara è, dunque, la lingua delle mani e il popolo basco, Eskualdun (Euskeldun, Uskaldun) è il popolo che parla la lingua delle mani.[1]
La cultura basca ha segnato di sé per lungo tempo l’Europa, accompagnandone la ripopolazione dopo l’ultima glaciazione. I Baschi, come è stato scientificamente provato, vivono stabilmente sul territorio di Euskal Herria da almeno 18.000 anni.
Recenti studi genetici e linguistici hanno stabilito una stretta parentela tra Baschi, Guanchi, Berberi ed Egizi. Il genetista Arnaiza Villena ha chiamato questo insieme di popoli “cultura usko – mediterranea”, una cultura che adottava un culto da lui definito della “Porta dell’oscurità”: un corpo di credenze associato alla Grande Madre e al culto delle acque.
Ricerche di genetica indicano ormai chiaramente che la maggior parte degli odierni europei ha antenati che vivevano in Europa già nell’epoca glaciale e che, analogamente a quanto suggeriscono gli studi linguistici, il ripopolamento d’Europa occidentale dopo la glaciazione ebbe prevalentemente origine “dal rifugio del nord della penisola iberica e del sud della Francia, ossia in Euzkadi, i Paesi Baschi. Va sottolineato che la lingua basca non appartiene alla famiglia indoeuropea, come le lingue del gruppo ugro-finnico: finlandese, estone, ungherese. Il basco, sia detto per inciso, da recenti studi viene associato al sumero e rientrerebbe nella famiglia linguistica “sino-tibetana, così come l’ainu, la misteriosa lingua dell’isola di Hokkaido in Giappone, già confrontata col basco a cui è molto simile”.[2] Il basco, secondo lo studioso Colin Renfrew, sarebbe la lingua degli uomini che popolarono le terre europee a seguito dell’espansione dall’Africa dei primi sapiens all’incirca 40 mila anni fa. In questa fase l’espansione “fu caratterizzata dallo stabilirsi del popolo basco, la cui lingua è considerata da Renfrew la prima parlata in Europa. Essa era molto più diffusa di oggi. Veniva infatti parlata sia nella penisola iberica, sia nell’attuale Francia. Alcuni addirittura la collocano nella maggior parte dei territori mediterranei”.[3]
La ripopolazione d’Europa dopo l’ultima glaciazione, ossia nel periodo magdaleniano[4], oltre a riguardare l’intera Europa nord occidentale (una linea riguarda in modo specifico l’Italia settentrionale) è passata, attraverso lo stretto di Gibilterra, nell’Africa del Nord. Accostarsi alla religione della Dea Madre dei Baschi, Mari, significa, pertanto, affrontare anche il rapporto con le divinità dell’Africa del Nord. [5]
Dopo aver valutato l’importanza dei Baschi nel processo di ripopolamento d’Europa, vediamo ora le caratteristiche essenziali della loro cultura e della loro religione.
In primo luogo va considerato, come spiega José Miguel de Barandarian, uno dei maggiori studiosi della mitologia basca, che “secondo una frase popolare, il reale comprende non solo quanto percepiscono i sensi e congettura e assicura la ragione, ma anche tutto ciò che ha un nome. Izena duen gutzia omen da si dice correntemente, il ché significa che ad ogni nome corrisponde un essere”. [6] I nomi sono rappresentazioni sonore delle cose.
Questa idea implica che i Baschi diano lo stesso status di realtà a tutto ciò che noi oggi consideriamo come scientificamente osservabile e determinabile e anche a tutto ciò che determinabile non è secondo il moderno criterio scientifico. Un genio come Mari, per il fatto stesso di avere un nome, esiste èd è reale, così come lo è il mondo dei trapassati. Un’idea, quella dei Baschi, condivisa dalla cultura celtica e da quella druidica per le quali l’aldilà e l’aldiquà avevano lo stesso status di realtà, al punto tale che i Celti si facevano prestiti esigibili nell’altro mondo.
Il concetto di spazio-tempo
Nel mondo basco non si trova dissociazione tra lo spazio ed il tempo, in quanto “il primo domina e ingloba il secondo. Troviamo – scrive Carlo Barbera – solo una leggera differenza nei sostantivi che designano tempo/spazio e momento/luogo: une/gune, arte/tarte, aldi/alde. Nel verbo stesso esiste quello che si definisce «l’aspetto», che è in definitiva «ciò che può succedere nello spazio-Alde, essendo il tempo-Aldi solo una qualità o caratteristica dello spazio»”.[7] “Una caratteristica delle voci euskariche è che funzionano per contrapposizione. Oltre a une/gune e ad altri troviamo le più importanti opposizioni di ur/lur/urte (acqua, terra, anno) che denotano l’unità cosmica di tutto ciò che esiste nel tempo-spazio”. [8]
Una singolare analogia la troviamo nelle popolazioni andine pre incaiche che, come scrive William Sullivan,[9] utilizzavano per indicare la Dea Madre il termine Pacha Mama. L’analisi del lemma pacha riporta al suo significato di spazio-tempo-luogo, mettendo in evidenza come quelle popolazioni concepissero lo spazio e il tempo come elementi inscindibili, così come avviene nella fisica post einsteiniana.
Pacha è “tiempo-suelo-Lughhar”, ossia tempo-suolo-luogo.
Pacha indica una cosa soltanto: luogo e tempo simultaneamente. “Se dico che ci incontriamo domani dello stesso pacha, dipende dal contesto stabilire se si parla del medesimo luogo, del medesimo tempo, o di entrambi. Per gli indigeni andini, il “posto” di oggi non è lo stesso di domani; il tempo è un modo di definire lo spazio e le peculiarità spaziali sono il terreno su cui sorge il tempo”.[10] Pacha mama è la madre spazio-temporale.
Einstein nella lettera alla famiglia dell’amico Michele Bosso (22 marzo 1955) scrive: “Ora se n’è andato da questo strano mondo un po’ prima di me. Questo non significa nulla. Per noi fisici la distinzione tra passato, presente e futuro è solo un’illusione, per quanto radicata”. “Lo spazio e il tempo – sostiene Einstein – non sono condizioni in cui viviamo, ma modi in cui pensiamo” e F.Capra gli fa eco scrivendo che “l’universo comincia a sembrare più simile a un grande pensiero che a una grande macchina”. [11] Nelle più recenti teorie spazio-temporali, nel multiverso si creerebbero delle bolle spazio-temporali, ossia delle curvature dello spazio-tempo tali da dar vita agli universi.
Interessante notare come alcune rappresentazioni simboliche della Dea madre (ad esempio sumeriche) possano essere assimilate a quelle con le quali viene rappresentata la curvatura spazio temporale. L’idea dei Baschi, relativa allo spazio e al tempo, non è dunque lontana da quelle di altre culture antiche e, sorprendentemente, da quella della fisica moderna.
Un corrispondente vibratorio in un’altra dimensione
I Baschi distinguevano tra il mondo naturale (berezko), conoscibile e affrontabile con gli strumenti naturali e il mondo soprannaturale (aideko) affrontabile con la magia, dove la magia è la capacità di rapportarsi a forze e dimensioni non categorizzabili nel misurabile, secondo i parametri dei cinque sensi e delle loro estensioni strumentali.
Il legame tra le cose e le loro rappresentazioni era chiamato Adur. “La forza magica Adur – scrive in proposito Carlo Barbera – è la consapevolezza che ogni cosa esistente in questa dimensione possiede un corrispondente vibratorio che appartiene ad un’altra dimensione, connessa alla prima da precisi vincoli causali che le rendono fra loro come il soggetto e l’immagine di esso riflessa nello specchio. …. Addentrarsi nella mitologia basca – aggiunge Barbera – significa essere consapevoli che il mondo non termina dove noi crediamo e che ciò che noi definiamo realtà potrebbe essere solo una parziale immagine riflessa di una realtà multidimensionale, inimmaginabile e fantastica che sembra essere, appunto, quella dell’antico mondo dei Baschi”. [12]
Il pantheon basco del cielo e della terra
Il cielo, comprendente il sole, era Osti, o Ostri, o Ortzi o Eguzki assimilato a Thor. Ilargia o Ilargui (dove argi significa luce) era la luna ed il guardiano della morte; accompagnava nell’Aldilà, regolava il mondo della conoscenza segreta, della divinazione e della magia. Mari era dea della terra e Sugaar dio del cielo e della terra. Lur, infine, entità femminile, era figlia della terra. Mari, uno dei “principali geni del più antico mondo basco”[13], purtroppo ignorata dai grandi studiosi delle religioni antiche, come Umberto Pestalozza o Mircea Eliade, è riconducibile al concetto di Madre Terra, Madre Roccia, Madre Pietra, ed è madre anche del sole e della luna (entrambi femminili). In questa idea di Mari ritroviamo un parallelo con la figura della Potnia, anche se qui siamo già in una fase di separazione dell’unità terra-cielo-sole-luna-cosmo che contraddistingueva la Dea Madre mediterranea.
C’erano poi geni vari e il Basjun, il Bassa Jaun[14], il Signore dei Boschi, divinità di collegamento tra il mondo degli dèi e quello degli uomini.
Nella sua Histoire de Basques, Augustin Chaho scrive: “L’immaginazione dei Baschi, aiutata dalle reminiscenze confuse dei paesi che i primi Euskariens hanno abitato, non ha mancato di popolare i Pirenei di esseri misteriosi e bizzarri, che servono da legami superstiziosi tra la creazione materiale e visibile e il mondo fantastico delle larve e degli spiriti. Il più popolare di questi miti pirenaici è il Signore selvaggio (Bassa Jaon), sorta di mostro dall’aspetto umano, che i Baschi mettono al fondo del nero abisso, o nella profondità della foresta. La taglia del Bassa Jaon è alta, la sua forza prodigiosa; tutto il suo corpo è coperto di un lungo pelo liscio, che sembra ad una capigliatura; cammina all’inizio come l’uomo, con un bastone alla mano e supera i cervi in agilità. Il viaggiatore che accelera la sua marcia nelle valli o i portatori che riuniscono le loro greggi all’approssimarsi di un temporale, si sentono chiamare con il loro nome ripetuto da collina a collina; è il Bassa Jaon. Degli urli strani si mescolano con il mormorio dei venti e ai gemiti sordi dei baschi al primo lampeggiare del fulmine; è ancora il Bassa Jaon! Un nero fantasma, illuminato dal chiarore improvviso, si erge nel mezzo degli abeti o si accoccola su qualche tronco d’albero decrepito, spostando i lunghi crini tra i quali brillano i suoi occhi scintillanti, Bassa Jaon! Il cammino di un essere invisibile si fa percepire dietro di voi, il suo passo cadenzato accompagna il rumore dei vostri passi; sempre Bassa Jaon!”.[15]
Il Bassa Jaon dei Baschi, secondo Augustin Chaho, è inverosimilmente l’orang outang, che secondo lui avrebbe dato origine anche ai silvani e ai satiri, ma dietro il Bassa Jaon si nasconde ben altro.
Il Bassa Jaon o Jaun è il Signore della natura, il Signore della Selva, il Signore del fare e poiché la lingua Euskara è la lingua delle mani, ossia dell’abilità manuale, il Bassa Jaon si evidenzia come un sapiente capace di operare sulla natura e di comprenderne gli intimi segreti. Jaun significa in basco Signore ed è interessante notare come la pronuncia del nome della divinità della cultura druidica Oiv sia Oiun: un’assonanza che ci dice come l’Essere che sta al centro di tutto fosse indicato non con il suo nome, inconoscibile, ma con un titolo: Signore, appunto.
Accanto al Bassa Jaun troviamo la Bassa Andera o Baxaandera, la Signora selvaggia, Signora della Natura.
Genio di sembianze umane, così come viene definito da alcuni, il Bassa Jaun è coperto di peli ed ha lunghi capelli accuratamente pettinati che scendono fino alle ginocchia. In tutta la simbologia mitologica i capelli sono simbolo di potenza e, pertanto, dei lunghi capelli ben curati sono una potenza, un’energia, custodita e alimentata con cura. Pettinare i capelli è simbolicamente ordinare l’energia. Il Bassa Jaun sa come indirizzare la forza.
Il Bassa Jaun è il Sapiente del Bosco che ritroviamo in molte leggende dell’arco alpino italiano e che, come spiega Massimo Centini[16] è considerato il primo abitante della montagna, maestro dell’arte casearia, dell’apicoltura, delle tecniche minerarie e della metallurgia, creatore e insegnante di canti e proverbi (con funzione divinatoria e propiziatoria), conoscitore dei segreti della natura. Razionale e attento allevatore e mago alchimista della natura, il Sapiente del Bosco ha funzioni sacerdotali sciamaniche ed è considerato anche dio delle profezie.
La Donna Selvatica è compagna del Sapiente del Bosco e a volte vive in gruppi di donne.
Abitazione del Sapiente del Bosco è il riparo sotto roccia detto balma o barma
Sin qui le caratteristiche generali del Bassa Jaun che sicuramente lo allontanano mille leghe dall’orang outang a cui pensa Chaho.
V’è, inoltre, un tratto specifico che ha una grande importanza: il Bassa Jaun ha uno dei piedi a pianta circolare, tratto caratteristico che lo associa al dio della vegetazione. Sul rapporto piede, scarpa, calza, zoppo, claudicante si diffonde lungamente Margarete Riemchneider[17] con ampi riferimenti alle saghe del Graal e ai miti antichi sottostanti.
La Déa Mari, la Grande Signora
Mari è un genio femminile, anche se in alcune circostanze il suo aspetto può essere maschile. La forma più antica è androginica. Mari, questo il nome più antico della Dea, è considerata come la regina di tutti i geni che popolano il mondo e, come sottolinea José Miguel de Barandarian, “conviene avvertire che in alcuni paesi chiamano Andra Mari, «Segñora Maria», tanto la Vergine quanto l’altra Mari, genio della Terra o Terra personificata”. [18] Un’avvertenza, questa, di estrema importanza per comprendere come la Vergine Maria abbia potuto rivestire con nuovi panni la Dea Madre Mari, consentendo, sia pure nelle forme cristiane, la prosecuzione del culto dell’antica divinità. Assume, pertanto, ancora maggiore significato la domanda, che ci siamo già posti, se non sia possibile che una sapiente regia abbia utilizzato forme cristiane per dare continuità all’Antica Religione, sempre viva tra le popolazioni.
Mari è “La Signora” o “La Dama”, Dea che vive nelle regioni abissali. Un altro dei suoi nomi è Maya e il nome Mari, come suggerisce Barandarian, ha relazioni anche con Mairi, Maide e Maindi. [19]
Le sue forme sono diverse: nelle regioni sotterranee ha aspetto serpentiforme; in superficie appare come una donna bellissima, elegantemente vestita, in atto di pettinarsi con un pettine d’oro[20] (ancora una volta troviamo il riferimento alla capacità di ordinare e indirizzare la forza). Vestita con eleganza (a Lercuns ha una gonna rossa), Mari ha alcune volte nelle mani un palazzo d’oro.[21]Nella sua casa a Aketegui ci sono letti d’oro, a Otsabio c’è una statua di un toro d’oro, a Airobi beltz si siede su una poltrona d’oro, a Otsibarra c’è un pettine d’oro che le apparteneva. Una manciata di carbone può trasformarsi in oro all’uscita della sua grotta. Mari ha i piedi d’uccello o di capra (a volte). Può essere pianta, roveto ardente, caprone, corvo, cavallo o giovenca, avvoltoio, raffica di vento, nuvola, arcobaleno, globo di fuoco, donna la cui testa ha come aureola la luna piena, falce infuocata che attraversa il firmamento. [22] Il simbolo di Mari è la falce di fuoco. Mari, dunque, è cielo, terra, luna e ha le caratteristiche (piedi d’uccello, corpo di serpente) della Dea Madre del Neolitico. E’ la Natura. “Mari premia la fede di chi crede in lei. … Mari attende a chi da lei accorre. Se qualcuno la chiama tre volte di seguito dicendo AKETEKIGO DAMA, «Señora de Aketegui», lei si colloca sul suo capo …In alcuni casi si chiede consiglio a Mari”. [23] Chi ossequia Mari non avrà il raccolto colpito dalla grandine. Un omaggio alla Dea è deporre pietre o denaro nella sua grotta. “Chi va a consultare Mari o a visitarla deve usare certe accortezze: deve darle del tu parlando con lei; deve uscire dalla sua caverna nel medesimo modo con cui è entrato, ossia, se uno è entrato guardando verso l’interno, deve uscire altrettanto guardando verso l’interno (andando all’indietro), questa condizione è simile a quella che, secondo la tradizione, deve osservare qualsiasi persona all’apparizione dell’anima di un defunto, tenendola sempre davanti; non deve sedersi mentre è nella dimora di Mari”. [24] Chi entra nella dimora di Mari senza essere invitato o asporta qualche oggetto verrà castigato.
Mari è sposa di Maju, o Sugaar, che appare come un serpente (il serpente di fuoco, la lava che sgorga dalle viscere della terra).
Apparentemente i due sposi vivono separati (Mari sulla terra e Maju-Sugaar nel mare), cosicché quando Mari e Maju si incontrano, si scatenano violente tempeste di pioggia, grandine, tuoni e fulmini. I Baschi, scrive Augustin Chaho, nella sua ricostruzione mitologica, che risente di molteplici influenze, “vedono nel fuoco centrale del globo il principio creativo e l’agente rinnovatore della terra: gli hanno dato il nome di Soughe, Serpente di Fuoco e Leheren (Lehen heren), Primo-Ultimo. Questo mito, emblema della lotta della natura, è lo stesso Leherenus, il Dio della guerra degli antichi Novempopulaninens”.[25] I veggenti euskariens, secondo Chaho, avevano scoperto i cicli delle eruzioni e il Grande Serpente è colui che solleva le montagne e getta la struttura interiore, la materia fusa, alla superficie.
“Leheren-Soughe dormiva, girava su se stesso, nel lago interno, lo stagno di fuoco, la sua respirazione profonda faceva muggire gli echi dell’inferno; l’uovo-mondo che gli serve da inviluppo sembrava pronto a rompersi ai movimenti convulsivi che agitavano il mostro durante la sua letargia. Infine l’angelo di Iao lasciò cadere nell’oceano la sessantesima goccia d’acqua dalla sua clessidra che segna il tempo, proclamò la fine e la consumazione dei secoli e suonò le sette trombe di bronzo. A questo segnale Leheren, il Grande Artefice di Dio si svegliò e sorgendo dalle sue caverne, aprendo le sette gole spalancate dalle quali sorgono i vulcani, in dieci giorni consumò e divorò la vecchia terra, e dalla sua lunga coda, più abile di quella di un castoro, plasmò la terra nuova nelle acque del Diluvio; poi terminata la sua opera, il dragone, come il baco da seta che costruisce la sua prigione, si girò su se stesso e si riaddormentò, cullato giorno e notte da quattro geni, attendendo il risveglio dei secoli e l’aurora dei tempi nuovi. Tuttavia, una moltitudine di uomini e di donne, spaventati dalla fine del mondo, si erano rifugiati sulle montagne; furono mutati in pietre: questa metamorfosi durò dieci secoli, dopo di ché essi furono restituiti alla loro forma precedente dal canto divino di un uccello luminoso. I loro posteri ripopolarono, durante il primo tempo, l’Africa, la Spagna, l’Italia e la Gallia: essi dispersero le loro colonie in Oriente, fino alla Persia, che ricevette da loro il suo nome primitivo di Iran. I patriarchi occidentali si chiamarono Euskariens; la storia dei Barbari li designò sotto la denominazione di razza del Sole e dell’Agnello; essi riconobbero come loro antenato il sublime Aitor, il primo nato dei veggenti. …. La religione naturale fu l’elemento morale della socievolezza dei primi uomini e della loro unione politica in repubbliche federate, successiva alla moltiplicazione progressiva delle tribù. Il titolo di figli dell’Agnello si spiega con il termine Chourien, comune ai dialetti dell’India, della Persia e dell’Iberia spagnola, per designare sia un agnello, sia il sole, Agnello celeste che, attraversa ogni anno, trionfante, i dodici pastori zodiacali del firmamento”. [26] Secondo Augustin Chao, arrivò in Galles la tribù dei Siluri, che Tacito riconosce come discendenti degli Iberi, ossia dei Baschi.
Mari solca il cielo con un carro trainato da cavalli ed è avvolta nelle fiamme. Appare anche come: arcobaleno, nuvola bianca, albero in fiamme, raffica di vento, uccello, falce di fuoco che si sposta da un picco all’altro; guida il cocchio trainato da quattro cavalli bianchi o vola in sella ad un ariete. Viene rapita da un toro come Persefone; è a capo di tutti i geni sotterranei; nella sua dimora, a volte, è in compagnia di geni animali o di fanciulle.
La Dea cambia spesso dimora e ogni localizzazione corrisponde ad un diverso personaggio, come non si trattasse di una medesima divinità, ma di una pluralità di divinità sorelle. Le caverne (akelarre) nelle quali vivono queste divinità sorelle sono la dimora delle streghe (sorgin).
Le streghe si trasformano spesso in gatti, talvolta in cani e montoni e si spostano spalmandosi con un unguento e recitando la formula: “Sazi guztien ganeti eta odei guztien aiztipi (sopra tutti i rovi e attraverso tutte le nubi)”.
Dall’incontro di Mari con Sugaar nascono due figli: Atarrabi (virtuoso) e Mikelatz (non virtuoso).
Mari o Signora di Amboto (Dea del Monte), compare in alcune grotte come avvoltoio, come cornacchia o donna con zampe d’uccello, come una falce o mezzaluna fiammeggiante o con il capo cerchiato dalla luna, monta-cavalca un ariete e fila con le sue corna usate come spole.[27]
Akerbeltz e il Dio Cornuto
Marjia Gimbutas parla di interscambiabilità delle corna di ariete (serpentiformi) con le spire del serpente. Nella tradizione orale basca, ricorda Maria Gimbutas[28], il caprone nero Akerbeltz (beltz=nero, da cui beltzebù come denominazione del demonio), protegge il gregge, aumenta la fertilità degli animali d’allevamento, ha potere terapeutico, tiene lontane morte e malattia. Benchè viva nelle regioni sotterranee, torna in superficie e spesso attraversa il cielo in forma di falce lunare fiammeggiante (così come la Dea basca). Il suo passaggio è presagio di un’imminente tempesta. Aker è il maschio del capro e ha un antenato nel precristiano Aherbelste (capro nero).
Ritroviamo in Akerbeltz una forma del Dio Cornuto e non a caso la “stregoneria basca, che tanta risonanza ha avuto nei secoli XVI e XVII, diede particolare notorietà a questa vecchia rappresentazione del nume sotterraneo. “Egli fu – scrive Barandarian – senza dubbio, nel sistema mitologico basco, una eco episodica, alla quale diedero risonanza straordinaria i temi stregoneschi di tutti i paesi che fermentavano molto nella mente degli intellettuali e degli inquisitori e dei giudici dei processi e degli autodafé, sia nei semplici villani di Sara Zugarramurdi. Tuttavia nelle dichiarazioni degli accusati di stregoneria appaiono frequenti allusioni a Akerbeltz o a un capro nero e ad Akelarre, dove quello presiede le assemblee degli stregoni. Akerbeltz o genio in figura di capro era adorato (o si suppone lo fosse) negli Akelarre delle streghe e degli stregoni nelle notti di lunedi, mercoledi e venerdi. I convenuti ballavano e offrivano al loro nume pane, uova e denaro. A giudicare dalla descrizione di alcuni atti e credenze che si attribuivano da sé, si direbbe che rappresentassero un movimento clandestino, nel quale si giunse a cristallizzare l’opposizione contro la religione cristiana e forse anche contro lo stato sociale vigente o ufficialmente riconosciuto nel Paese, anche se questo non era forse che un atteggiamento suggerito dalla mente dei supposti stregoni a causa delle domande dei loro giudici”. [29]
Questa analisi di José Miguel de Barandarian, che è un sacerdote cattolico, ci propone la presenza di un movimento clandestino di seguaci dell’Antica Religione, perseguitati dall’Inquisizione come stregoni e ci ripropone la domanda: è possibile che un gruppo di iniziati abbia sapientemente condotto azioni tese a salvaguardare il culto della Dea Madre e del Dio Cornuto, ovvero delle due divinità archetipiche dell’antichità, modificando di volta in volta i loro nomi e le norme comportamentali del culto e dei riti, al fine di evitare le persecuzioni di una religione, come quella cristiana, divenuta poco tempo dopo la sua fondazione forma ideologica del potere temporale?
Sugaar, il serpente di fuoco
Dopo il capro, analizziamo il serpente, ovvero Sugaar, il cui nome deriva dalla radice basca su, fuoco[30] (Gimbutas). Dalla radice su deriva suga o suge, serpente. Se si aggiunge il suffisso –ar significa “marchio” o anche “fiamma di fuoco”. Sugaar è dunque “Fiamma di fuoco”. La radice su è usata anche come calore in senso sessuale.
In Arcaitia (regione basca) Sugaar è chiamato Maju ed è il marito della Dea. Ogni venerdi le fa visita e la pettina. Il loro incontro provoca pioggia e grandine. La raffigurazione della fertilità altamente sessualizzata è evidente. La Dea è anche trainata da un serpente o su un’imbarcazione con testa di serpente: la “Barca del rinnovamento”. [31] E’ interessante notare che in gaelico la farfalla è Maro[32] e Maro ha la stessa radice di Mari[33] In sumerico Ama significa madre e ri(m) partorire. A Creta troviamo l’Amari minoico e a Cipro la Dea preindoeuropea Ay-Mari.
Infine, assai significativo è che i Liguri, eredi di quelle che Piero Barbieri[34]chiama le genti atlantico mediterranee, veneravano il dio Mar, considerato anche un mitico condottiero. Da mar deriva Martino, nome del maschio della capra. “Nell’entroterra spezzino – scrive in proposito Paolo Barbieri – per incitare ad aggredire si dice ancora «zuca Martin!» (incorna Martino)”. [35]
Mari, scrive conclusivamente Barandarian, “costituisce un nucleo tematico o punto di convergenza di un numero di temi mitici di diversa provenienza: uno indoeuropeo, l’altro del fondo preindoeuropeo. Tuttavia, facendo attenzione ad alcuni dei suoi attributi (dominio delle forze terrestri e dei geni sotterranei, sua identificazione con diversi fenomeni tellurici, ecc. ) noi siamo inclini a considerarlo come simbolo – quasi una personificazione – della Terra”. [36]
Intxitxu era spirito invisibile che costruiva i cromlech. Irelu era spirito sotterraneo e la sua canzone si confondeva con il suono del vento. Beigorri era il guardiano di molte dimore di Mari ed era legato al bosco e al culto della casa: exte.
Gli antichi Baschi veneravano la memoria dei defunti il primo di novembre, giorno d’inizio della festa d’inverno, con l’accensione di sottili candele (argizaiolak). Le assonanze con la festività celtica di Samain sono evidenti. Il carnevale veniva festeggiato con la danza delle streghe e il solstizio d’estate con dei falò nelle campagne.
Jaungoikoak, il dio universale
Il loro dio universale era Jaungoikoak o Jangoikoak, signore della luna, colui che diede origine ai tre principi della vita: Egia, la luce dello spirito; Ekihia, il sole, la luce del mondo e Begia, la luce del corpo.
Il popolo basco è legato al culto della casa, etxe: luogo fisico di origine, ma anche tempio e cimitero, simbolo e centro comune dei vivi e dei morti di una famiglia, protetto dal focolare simbolo della Dea Mari. Il potere soprannaturale di Exte risiede nell’alloro del suo orto o in quello che si conserva in casa, nella cenere del focolare, nei diversi rami di biancospino, di fiori solstiziali, del cardo silvestre, simbolo del sole, dall’ascia e dalla falce dotate di poteri mistici, ma anche per essere la dimora degli spiriti degli antenati e luogo da essi visitato per la perenne offerta di luce che si accende nelle anime conservando il fuoco del focolare, conformemente ad una rituale prescrizione o norma di «illuminare i morti almeno con una candela», per l’usanza di depositare sulle finestre offerte commestibili per i defunti e, infine, per il costume antico di orientare la sua entrata principale verso il sole nascente. [37]
Il riferimento all’ascia è di grande importanza, in quanto l’ascia litica è oggetto di “antica venerazione”[38]. La pietra o ascia neolitica è considerata come simbolo del raggio che protegge la casa dove si trova dai malevoli effetti del fulmine. Ci sono vocaboli nella lingua Euskara che ci riportano direttamente all’Età della Pietra, aizkora, aitzo (ascia, coltello), con la componente aitza (pietra o roccia). Omari, Omar, Inhar, Ozpinarri, Oneztarri, Tximistarri sono nomi della “pietra fulmine” e rispondono ad un vecchio mito molto diffuso nei paesi europei, secondo il quale il fulmine è una pietra speciale (ascia neolitica, punta di silicio), che al cadere a terra si introduce in essa fino alla profondità di sette stadi. La pietra emerge poi di uno stadio ogni anno e in capo a sette anni si trova in superficie e dal quel momento protegge la casa vicino alla quale è emersa contro gli spiriti maligni.
“L’ascia acheuliana – scrive Ervin Lazlo – utensile molto diffuso nell’età della Pietra, aveva un tipico disegno a mandorla o a forma di lacrima, scheggiato simmetricamente su ambo i lati. In Europa quest’ascia era di selce e in Medio Oriente di pietra silicea, mentre in Africa di quarzite, scisto cristallino o diabase. La sua forma di base era funzionale, ma i dettagli esecutivi identici praticamente in tutte le culture tradizionali non possono essere spiegati dalla simultanea scoperta di soluzioni utilitaristiche per una necessità condivisa: è improbabile che il processo di prova ed errore abbia prodotto tali somiglianze nei dettagli in così tante popolazioni divise da distanze incolmabili”. [39]
Fenomeno trans personale e transculturale, come ritiene Lazlo, quello della contemporanea diffusione dell’ascia, o fenomeno dovuto al campo morfogenetico di cui parla Rupert Sheldrake o, ancora, frutto di una civiltà della Pietra ampia, diffusa, in grado di comunicare? Non località del pensiero o grandi civiltà neolitiche diffuse in più parti della Terra in grado di relazionarsi tra loro?
Il ruolo della donna e il culto domestico
Torniamo alla casa basca. Il culto domestico rivela un’importante ruolo della donna. E’ infatti “ la «etxekoandre», «signora della casa», il principale ministro di questa religione. Ella pratica in effetti alcuni atti cultuali, come fare offerte di luce e commestibili ai defunti della sua casa, benedire i membri della sua famiglia una volta all’anno, insegnare a tutti il dovere di mantenersi in comunione con gli antenati, di rispettare gli anziani e di compiere gli obblighi che impone il vicinato”. [40] La struttura dei verbi tratta in modo differenziato ed ugualitario sia l’uomo che la donna, cosa che suppone un riconoscimento specifico della donna a livello di linguaggio.
L’etxekandere o signora della casa è la principale officiante del culto domestico. Queste tradizioni attestano l’importanza del ruolo femminile tra i Baschi. Tra le credenze che rientrano nel cerimoniale religioso vi è quella che afferma che non si può girare attorno alla casa tre volte. La casa basca era considerata inviolabile (godeva del diritto di asilo) e inalienabile: doveva essere trasmessa integra e indivisibile all’interno della famiglia. Il culto domestico riguardava in particolare le anime dei morti, le quali, secondo una credenza diffusa, appaiono sotto forma di lampi, di luci o di colpi di vento, talvolta come ombre. Di notte spesso tornano al loro etxe attraverso dei cammini sotterranei. Troviamo nella cultura basca un’importante testimonianza del culto danzato, davanti alla casa o nelle caverne, di notte, con il girare in tondo. Culto che troviamo in altro contesto, nell’isola di Jersey, dove si cantava: “Et nous irons à la Saint Jean/Danser à la roque Balan”[41], dove Saint Jean è assimilabile a Jaun, il Signore e Balan è Belenus, dio celtico derivante dal basco Beltz.
In Biscaglia c’è la Sorgin-Danza e si ha anche una Danza del Capro, la Akher-Danza e la Danza della cantiniera (che nasconde l’andere, la signora, la regina). Questa “danza comporta per sé un mistero nella composizione dei ballerini, i quali sembrano rappresentare i pezzi fondamentali della scacchiera. Sono, oltre alla regina-cantiniera, il cavaliere con la sua coperta da cavallo, l’alfiere, in certi casi una palla all’estremità di una cordicella (in alta Navarra), un probabile rappresentante della Torre, il re, che spesso porta una bandiera. D’altra parte, troviamo una makhila-danza (danza del pallone), una espada-danza (danza della spada), un ballo (danza della coppa) che richiede grande abilità intorno a un bicchiere di vino riempito fino all’orlo, che viene afferrato tra passaggi ed intrecci e un ballo che sembra proprio essere una danza del bisante, con i quattro colori dei tarocchi…”. [42]
La più importante festa d’inverno è il carnevale. Mentre gli antichi riti del solstizio d’inverno sono stati quasi completamente assorbiti dal cristianesimo, quelli del solstizio d’estate vedono ancora una tradizione intatta. Nella notte del solstizio in ogni villaggio, città e fattoria viene acceso un falò ed è molto popolare l’usanza di saltare nel fuoco. Nei falò delle campagne rami ardenti, presi dal fuoco, sono trascinati nei campi per allontanare ogni male. Il giorno dopo il solstizio d’estate nei mercati della città sono esibiti “rami fortunati”, pezzi di legno che non sono stati consumati dalle fiamme dei falò e che proteggono dagli incendi.
[1] Vedi A. Baudrimont, Histoire des Basques, Chez Benjamin Duprat, Paris
[2] Yuri Gori, La lingua di Adamo, Archeomisteri n. 32, marzo/aprile 2007
[3] Gori, La lingua di Adamo, Archeomisteri n. 32, marzo/aprile 2007
[4] Ultima fase del Paleolitico superiore in Europa centrale e in Spagna. Il magdaleniano abbraccia un periodo che è compreso tra 18.000 e circa 10.000 anni fa, esteso fino alla fine della glaciazione Würm III, che segna la fine del Paleolitico superiore e il passaggio al Mesolitico.
[5] Su Le Scienze, numero 407, luglio 2002 Elisabeth Hamel, Peter Foster e Theo Vennemann, in proposito scrivono: “Ricerche di genetica molecolare indicano che la maggior parte degli odierni europei ha antenati che vivevano in Europa già nell’epoca glaciale. E che, analogamente a quanto suggerito dagli studi linguistici, il ripopolamento d’Europa occidentale dopo la glaciazione ebbe prevalentemente origine dal “rifugio” nel nord della penisola iberica e nel sud della Francia”.
Almeno tre quarti della popolazione odierna d’Europa discende in linea femminile dagli antichi europei, che sicuramente arrivarono dal Medio Oriente prima del culmine dell’ultima glaciazione, avvenuto 20 mila anni fa. “Secondo i nostri dati – scrivono Elisabeth Hamel, Peter Foster e Theo Vennemann – i più antichi europei devono essersi sviluppati circa 50 mila–80 mila anni fa in Asia Minore. Ne segue che gli antichi europei si collocano sulla linea del moderno Homo Sapiens e non dell’uomo di Neanderthal”. E continuano: “… dal punto di vista genetico i Baschi si differenziano dai restanti europei solo per il 25 per cento. Ciò significa – in completo contrasto con le teorie fino ad ora accreditate – che le popolazioni che giunsero in Europa durante il Neolitico influirono relativamente poco sul patrimonio genetico di quelle europee”.
“E’ possibile – sostengono i due studiosi – che la lingua vascone abbia avuto origine solo dai gruppi di sopravvissuti all’epoca glaciale nell’Europa sud-occidentale, uno degli ultimi territori abitabili a nord dei Pirenei e delle Alpi. Quando i ghiacciai cominciarono a sciogliersi dopo il culmine dell’ultima glaciazione, 18 mila anni fa, queste popolazioni si spinsero a poco a poco verso l’Europa centrale e settentrionale”.
La cittadina di Ebersberg – scrivono Elisabeth Hamel e Theo Vannemann su Le Scienze (n.407 del Lughhlio 2002) è in Baviera e il suo nome in tedesco significa «monte del cinghiale», ma attenzione, avvertono i due autori, il significato oggi attribuito al nome della città è fuorviante. La denominazione non risale al Medioevo e nemmeno all’epoca celtica, ma probabilmente ai Vasconi, un popolo che si insediò nella regione subito dopo l’ultima glaciazione, muovendo dal sud della Francia.
Molti nomi di centri abitati, fiumi, montagne, valli e regioni in Europa, secondo Elisabeth Hamel e Theo Vannemann, potrebbero infatti “derivare da lingue pre-indoeuropee e in particolare, come risulta da studi recenti, dalla antica lingua basca. Ciò confermerebbe che un tempo quasi tutta l’Europa sia stata abitata da popoli imparentati che gli odierni Baschi: i Vasconi, appunto, i Baschi dell’antichità secondo la denominazione latina”.
“La teoria – scrivono Elisabeth Hamel e Theo Vannemann – è stata confermata anche da studi genetici: gli attuali Baschi non sono affatto un gruppo «a parte», non imparentato con gli altri popoli europei. Al contrario: nell’intera popolazione europea si ritrova in misura sbalorditiva una eredità genetica in comune con i Baschi. Questi risultati smentiscono le precedenti ipotesi relative ai modelli di insediamento in Europa durante gli ultimi 10-15.000 anni, all’indomani cioè dell’ultima glaciazione che ebbe il culmine 20.000 anni fa”.
Per lungo tempo gli scienziati non sono riusciti a rilevare alcuna parentela dei Baschi con le altre popolazioni europee, discendenti in prevalenza – secondo l’interpretazione attuale – da popolazioni giunte in Europa dall’Asia centrale o dal Medio Oriente, non più tardi di 10.000 anni fa; popolazioni che avevano portato con sé l’economia rurale e le lingue indoeuropee. Si riteneva che gli indoeuropei, con la loro superiorità numerica, avessero assorbito o soppiantato la popolazione indigena.
“Già nel XIX secolo – scrivono i due autori – i linguisti scoprirono che molti nomi di fiumi, torrenti e laghi erano estremamente antichi, e da tempo era noto che le prime popolazioni usassero dare agli elementi geografici del loro ambiente nomi che ne indicavano solamente la natura, come «fiume», «montagna», «acqua», senza alcuna altra connotazione; le popolazioni più recenti ripresero poi il toponimo senza capirne il significato. Nel caso singolo, comunque, è spesso difficile riconoscere da quale livello idiomatico provenga il nucleo verbale delle odierne denominazioni europee. I nomi dei centri abitati, invece, sono stati sempre considerati molto più recenti. Secondo alcuni studiosi, molti nacquero agli inizi dell’epoca storica, e varie fonti testimoniano un’origine medioevale”.
“Per i nomi dei fiumi e di altri elementi geografici – continuano Hamel e Vannemann – vale la regola che siano tanto più antichi quanto più sono frequenti. In tutta Europa molti nomi di corsi d’acqua conservano in maniera evidente uno stesso nucleo verbale: si trovano nomi in al-/alm-, come Aller, Alm o anche Elz, un tempo Alantia. Un altro gruppo è costituito dai nomi in var-/ver-, che si ritrovano per esempio in Werre o Warne. Altrettanto numerosi sono i nomi in sal-/salm-, come la Saale. Esiste poi un grande gruppo di nomi in is-/eis-, come Isar e Isarco, e in ur-/aur-, come Urach e Aurach. La stessa cosa vale però anche per molti nomi di città. L’elenco dei codici di avviamento postale in Germania registra 7 comuni che si chiamano Ebersberg, 9 Ebersdoif, 16 Ebersbach. In totale sono elencati 80 nomi di città che iniziano con eber. Anche in Francia si trovano decine di città con analoghi elementi verbali; condizionati dalla diversa area linguistica, i nomi suonano leggermente diversi. Comunque Ebréon, Ibarolle, Evrune, Ivry, Ivors, Averdon, Avricourt, Avrolle, Yvré e molti altri si possono ricondurre, secondo le nostre ricerche, alle stesse radici linguistiche”.
“Che i nomi dei centri abitati a nord delle Alpi, dall’Europa centrale fino alla Gran Bretagna e alla Scandinavia meridionale, mostrassero una sorprendente impronta comune – fanno osservare i due autori – era parso degno di nota già a metà del secolo scorso al linguista Hans Krahe (1898-1965). Egli considerava questi nomi «fossili… di un’epoca antica e spesso da lungo tempo trascorsa» e ne cercava le radici nelle antiche lingue indoeuropee. Si trattava di deduzioni spesso poco soddisfacenti, tanto più che gli Indoeuropei giunsero in Europa relativamente tardi. Secondo l’archeologo inglese Colin Renfrew, queste popolazioni non erano altro che i primi agricoltori europei, con i quali cominciò l’ultima fase dell’Età della pietra, ossia il Neolitico. Se si suppone che molti toponimi d’Europa abbiano avuto origine da popolazioni precedenti agli Indoeuropei, poi scomparse, bisogna prendere in considerazione anche i gruppi insediatisi in Europa subito dopo l’ultima glaciazione. I primi agricoltori iniziarono a colonizzare il continente europeo solo 7000 anni fa, ma i territori spopolatisi nell’ultima glaciazione erano stati ripopolati molto prima: il primo insediamento noto agli archeologi successivo al culmine della glaciazione si trova nella regione tedesca di Freiburg e risale a oltre 18.000 anni fa. Non c’è dubbio che queste popolazioni avessero dato un nome ai fiumi e alle località dei loro dintorni: non si può quindi escludere che alcuni toponimi risalgano a quell’epoca”.
“L’attribuzione agli Indoeuropei dei nomi dei corsi d’acqua si scontra – dicono Hamel e Vannemann – anche con il fatto che in Spagna alcuni di questi nomi contengono elementi verbali presenti in Europa a nord delle Alpi: gli Indoeuropei, infatti, si spinsero così a sud-est solo nel I millennio a.C. Secondo i linguisti alcuni nomi di fiumi iberici derivano dal basco; noi sosteniamo che ciò sia vero anche per i nomi dei corsi d’acqua nel resto d’Europa. Il vocabolario basco contiene infatti i caratteristici elementi lessicali – is, ur e ibar (tutti con un riferimento semantico all’acqua) – che si riscontrano in molti nomi di fiumi europei. Un ulteriore indizio della derivazione basca è dato dalle vocali presenti in questi nomi. Quasi la metà degli antichi nomi di fiume inizia con una vocale, nella maggior parte dei casi una a (talvolta solo in una forma nominale antica); e in ogni caso i nomi contengono molto spesso la lettera a. Anche la i o la u ricorrono spesso nei nomi di corsi d’acqua. Tutto ciò è atipico per l’antico indoeuropeo: in questa lingua raramente le vocali erano all’inizio delle parole e quelle più frequenti erano la e e la o. Nel basco, al contrario, circa un terzo delle parole inizia per a, e molte contengono al loro interno una o più a. Anche la i e la u all’inizio delle parole sono molto frequenti”.
Un gruppo di ricerca della Ludwig-Maximilian Universitat a Monaco di Baviera ha iniziato a esaminare con lo stesso criterio l’origine dei nomi di centri abitati, individuando – di nuovo – un rapporto con parole o elementi verbali baschi. E in effetti non è raro incappare in vocaboli baschi usati come toponimi o all’interno di essi, specie nel caso di città situate in una posizione favorevole, per le quali si può supporre una certa antichità.
“Spesso – fanno osservare i due autori dell’accurato studio linguistico pubblicato da “Le Scienze “ – nel nome dei corsi d’acqua e delle strutture del paesaggio si nasconde un’antica parola che significa «acqua», «corso d’acqua» o che indica la forma del paesaggio. Ritorniamo all’esempio del vocabolo «eben». Una delle città in eber-, Ibarolle, si trova in una valle dei Pirenei. Poiché la parola basca ibar significa «valle, foce del fiume», già in passato i linguisti attribuirono questo significato al nome. E l’Ebrach, sul quale si trova Ebersberg dell’Alta Baviera, si chiamerebbe semplicemente «fiume», o meglio «fiume-fiume» perché il suffisso -ach altro non è che la parola dell’antico alto tedesco per «fiume» (e si noti la parentela con il latino aqua). Le nostre ricerche indicano come molte delle città in eber- abbiano nomi da ricondurre a una popolazione di lingua vascone. Millenni dopo popolazioni di lingua diversa mutarono il nome in modo che avesse per loro un senso: il basco ibar divenne così in tedesco eber. Molti altri nomi di città si possono comprendere facendo riferimento all’acqua: per esempio, le molte denominazioni che contengono l’elemento is. In basco questa sillaba, usata soprattutto nelle parole composte, significa «acqua» o «corso d’acqua». In Baviera si trovano le città di Ismaning (già Isamaninga), Ism (sull’Isen, un tempo Isana) ed Eisolzried (già Isoltesried); in Svizzera le città di Ism e Isel. Abbiamo comunque rilevato anche nomi che hanno altri riferimenti: la parola basca aran significa «valle». Denominazioni che contengono questo elemento lessicale sono diffuse in tutta l’Europa. Nell’Inghilterra meridionale si trova la città di Arundel, in Norvegia – e anche in Svezia – Arendal. In Germania c’è una dozzina di città come Arnach, Arnsberg, Arnstem, Arensburg, Ahrensburg. Anche Ohrenbach nell’Odenwald, che un tempo si chiamava Aranbach, si può annoverare tra queste, e altrettanto Mohrenstein, nell’Alto Palatinato, un tempo Marnstein (da «am Arnstein», ossia «sulI’Arnstein»). Secondo la tradizione popolare alcune di queste città prendono il nome da una persona, tale Arno. Ma ciò suona strano: di solito sono le persone a trarre il nome dal luogo di origine, e non viceversa. Altre città in arn- derivano apparentemente il loro nome da Aar, il «nobile» (in antico alto tedesco arn). Allo stato attuale delle ricerche, tutte le città in arn si trovano in zone alle quali si addice la parola basca arano. Anche Ahrensfelde (presso Ahrensburg), nell’Holstein orientale, si trova al margine di una valle, attualmente parte di un’area protetta”.
“Anche altri nomi di luogo – scrivono Hamel e Vannemann – sembrano essere molto più antichi di quanto attestino le etimologie tradizionali, sebbene a volte ciò susciti reazioni indignate, come è accaduto quando è stato messo in dubbio che Monaco di Baviera derivasse il nome dalla presenza di monaci. Verosimilmente, però, Monaco non fu fondata in epoca cristiana: già prima vi era una Munica, (da città sulla riva). La parola basca mun (nella forma arcaica, bun) significa «riva», «scarpata», «rialzo del terreno». La Monaco antica si trovava su una collina sull’Isar, la Petersbergl. La forma più arcaica dell’elemento bun potrebbe essere sopravvissuta nella parola greca bouno, «montagna», in greco antico bounos, «collina», che, secondo un’interpretazione, è una parola mutuata da un’altra lingua. Tutto ciò conferma la teoria secondo cui gli antichi Europei che attribuirono questi nomi parlavano una lingua imparentata con il basco. Devono essere sopravvissuti all’epoca glaciale in un «rifugio» nell’Europa meridionale, sviluppando una lingua comune. L’unico territorio dell’Europa occidentale che può aver assolto questa funzione di rifugio si trova al confine tra la Francia e la Spagna: sono i Paesi Baschi”.
“Gli antichi Vasconi, però- fanno notare i due autori – non lasciarono ai posteri solo denominazioni geografiche. In molte regioni vi sono ancora tracce del loro antico sistema di numerazione. Gli Indoeuropei portarono con sé il sistema decimale, ma i Baschi ancora oggi contano con un sistema in base venti”.
Anche il danese conserva questo antico metodo di numerazione.
“A conclusioni sbalorditivamente simili – sostengono Hamel e Vannemann – si può arrivare anche per altra via. Ricerche di genetica molecolare indicano che la maggior parte degli odierni Europei ha antenati che vivevano in Europa già nell’epoca glaciale. E che, analogamente a quanto suggerito dagli studi linguistici, il ripopolamento dell’Europa occidentale dopo la glaciazione ebbe prevalentemente origine dal «rifugio» del nord della Penisola iberica e del sud della Francia”.
“È possibile – aggiungono i due autori – che la lingua vascone abbia avuto origine solo dai gruppi di sopravvissuti all’epoca glaciale nell’Europa sud-occidentale, uno degli ultimi territori abitabili a nord dei Pirenei e delle Alpi. Quando i ghiacciai cominciarono a sciogliersi dopo il culmine dell’ultima glaciazione, 18.000 anni fa queste popolazioni si spinsero a poco a poco verso l’Europa centrale e settentrionale. Erano territori pressochè spopolati, e i nuovi arrivati diedero ai fiumi, alle montagne, alle valli e alle paludi nomi “naturali” della loro lingua. Portavano con sé la cultura maddaleniana, che si diffuse a est fino alla Moravia e alla Turingia. Nella Germania settentrionale si sviluppò una cultura di cacciatori di renne che arrivò fino alla Pomerania e alle Isole Britanniche. Ancora oggi moltissimi nomi di corsi d’acqua dell’Europa orientale si possono probabilmente riferire a varianti del vascone. Anche nella lingua tedesca odierna il vascone ha lasciato tracce. Land (terra, paese) secondo un’antica interpretazione è una parola mutuata dal vascone, e anche Harn (urina), Schenkel (coscia), Garbe (covone), Mure (colata di fango), Anger (prato), Haken (gancio), Krapfen, Latte (asticella), Laden (bottega), Eisvogel (martin pescatore) – antico fs-anl – e Senne (pascolo alpino) potrebbero appartenere a questo gruppo. In parte queste parole derivano però dal latino: Kiise (formaggio), dal basco gazi, «salato», arrivò al tedesco attraverso il latino caseus. Il latino mons, «montagna», e grandis, «grande», dovrebbero essere parole mutuate dal vascone. Anche l’antica regola che si debba sempre accentare la prima sillaba di una parola potrebbe derivare dal vascone; tale regola ha interessato tutte, e solo, le lingue sviluppatesi da est a ovest: il germanico, il celtico, il latino più antico e l’etrusco, una lingua non indoeuropea”.
“Non stupisce – asseriscono Hamel e Vannemann – trovare elementi baschi in Africa settentrionale”.
Comunque le lingue vasconi non sono le uniche , secondo i due autori, ad aver lasciato tracce in Europa. “I filologi hanno scoperto più di un secolo fa influssi delle lingue camito-semitiche in Europa occidentale. Da ciò si può dedurre che, durante la preistoria, alcune popolazioni le portarono nel nostro continente spingendosi lungo le coste fino all’Europa settentrionale: la storia del popolamento europeo ha ancora in serbo molte sorprese”.
Vediamo ora, dopo questa lunga citazione di uno studio difficilmente riassumibile, perché già sintetico, quanto Elisabeth Hamel, questa volta in un articolo firmato con Peter Foster, afferma in relazione al lavoro di vari studiosi nel campo genetico.
“Il risultato più importante – scrivono i due autori – deriva dalla scoperta che almeno i tre quarti delle odierne popolazioni d’Europa discendono in linea femminile direttamente dagli antichi Europei, che sicuramente arrivarono dal Medio Oriente prima del culmine dell’ultima glaciazione, avvenuto 20.000 anni fa. Secondo i nostri dati, i più antichi tipi europei devono essersi sviluppati circa 50-80.000 anni fa in Asia Minore. Ne segue che gli antichi Europei si collocano sulla linea del moderno Homo sapiens e non dell’uomo di Neandertal. Probabilmente questi antichi Europei furono in grado di sopravvivere al periodo più critico della glaciazione solo nei “rifugi” climaticamente più favorevoli, i più importanti dei quali si trovavano in Ucraina e nell’Europa sud-occidentale. Come abbiamo indicato, una parte considerevole delle popolazioni che si insediarono nell’Ovest e nel Nord del continente dopo la glaciazione (secondo la datazione genetica 10-15.000 anni fa) proveniva proprio dall’Europa sud-occidentale: dal punto di vista genetico i Baschi si differenziano dai restanti europei solo per il 25 per cento. Ciò significa – in completo contrasto con le teorie finora accreditate – che le popolazioni che giunsero in Europa durante il Neolitico influirono relativamente poco sul patrimonio genetico di quelle europee”.
“Meno di un quarto degli Europei – dicono Hammel e Foster – avrebbe, in linea femminile, antenati che arrivarono in Europa meno di 10.000 anni fa. In queste popolazioni immigrate, che furono probabilmente i primi agricoltori e allevatori di bestiame, è possibile riconoscere varie ondate, ossia linee genetiche di diverse età: in Europa occidentale si delinea una linea di discendenza che risale a 10.000 anni fa, e in Europa centrale una che risale a 6000 anni fa”.
[6] José Miguel de Barandarian, Mitología vasca, Txertoa
[7] Carlo Barbera, Gli indios dei Pirenei, www.arcadia93.org
[8] Carlo Barbera, Gli indios dei Pirenei, www.arcadia93.org
[9] W.Sullivan – Mistero degli Incas” – ed. Piemme
[10] W.Sullivan – op. cit.
[11] F.Capra – Il punto di svolta – E.E. Feltrinelli
[12] Carlo Barbera, Gli indios dei Pirenei, www.arcadia93.org
[13] José Miguel de Barandarian, Mitología vasca, Txertoa
[14] Lo troveremo scritto in molti modi tra loro simili: Baxa Jaun, Bassa Jaun, Basa Jaon, ecc.
[15] Augustin Chaho, Histoire de Basques, Imprimerie e Lithographie de P. Lesper, Bayonne, 1847
[16] Massimo Centini, Il Sapiente del Bosco, Xenia
[17] Margarete Riemschneider, Miti pagani e miti cristiani, Xenia
[18] José Miguel de Barandarian, Mitología vasca, Txertoa
[19] José Miguel de Barandarian, Mitología vasca, Txertoa
[20] E’ interessante notare, a questo proposito, come la Dea madre degli Sciti abia coda di serpente. Vedi: Pietro Citati, La luce della notte, Mondadori
[21] Augustin Chaho, Histoire de Basques, Imprimerie e Lithographie de P. Lesper, Bayonne, 1847
[22] Vedi Louis Charpentier, Il mistero basco, Edizioni Età dell’Acquario
[23] José Miguel de Barandarian, Mitología vasca, Txertoa
[24] José Miguel de Barandarian, Mitología vasca, Txertoa
[25] Augustin Chaho, Histoire de Basques, Imprimerie e Lithographie de P. Lesper, Bayonne, 1847
[26] Augustin Chaho, Histoire de Basques, Imprimerie e Lithographie de P. Lesper, Bayonne, 1847
[27] Marija Gimbutas, Il linguaggio della Dea, Venexia
[28] Marija Gimbutas, Il linguaggio della Dea, Venexia
[29] José Miguel de Barandarian, Mitología vasca, Txertoa
[30] Marija Gimbutas, Il linguaggio della Dea, Venexia
[31] Marija Gimbutas, Il linguaggio della Dea, Venexia
[32] Marija Gimbutas, Il linguaggio della Dea, Venexia
[33] Marija Gimbutas, Il linguaggio della Dea, Venexia
[34] Piero Barbieri, I Liguri nel mito e nella storia, Luna editore
[35] Paolo Barbieri, I Liguri nel mito e nella storia, Lunaeditore
[36] José Miguel de Barandarian, Mitología vasca, Txertoa
[37] José Miguel de Barandarian, Mitología vasca, Txertoa
[38] José Miguel de Barandarian, Mitología vasca, Txertoa
[39] Ervin Lazlo, La scienza e il campo akashico – Urra
[40] José Miguel de Barandarian, Mitología vasca, Txertoa
[41] In Louis Charpentier, Il mistero basco, Edizioni Eta dell’Acquario
[42] Louis Charpentier, Il mistero basco, Edizioni Età dell’Acquario.
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