L’edizione in italiano per i tipi di Nino Aragno editore dell’ultimo canto di Gabriele D’Annunzio: “Le dit du sourd e muet qui fut miraculé en l’an de grace 1266”, ripropone all’attenzione la figura del Poeta Soldato nella sua dimensione utopica e cavalleresca.
Gabriele D’Annunzio scrisse questa sua opera in un francese ricercato e arcaicizzante nel 1930, nei suoi ultimi anni di vita al Vittoriale, nella splendida cornice benacense, con l’obiettivo di sposare vita, arte e politica. Il romanzo, ambientato in un medioevo fantastico e dedicato ai “buoni cavalieri latini di Francia e Italia”, narra le vicende di Guerri de Dampnes in un’autentica canzone di gesta, che ricorda quelle che fiorirono in lingua provenzale tra il XII e XIII secolo.
In controluce si possono leggere il volo su Vienna, la Beffa di Buccari, la Reggenza del Carnaro, che associano le gesta di D’Annunzio con quelle del suo alter ego Guerri, alla ricerca della “buona morte”, che ispira i cavalieri cantati nelle canzoni medioevali, così come i giovani legionari di Fiume
I gesti teatrali del Poeta “in politica come letteratura, gli scandali veri o presunti che suscitò e le sue imprese eroiche – scrive in proposito Federico Roncoroni nella presnetazione della biografia di Piero Chiara, “Vita di Gabriele D’Annunzio” – hanno sempre tenuto desta l’attenzione del pubblico, che vedeva in lui, e nei protagonisti delle sue opere, l’incarnazione delle proprie aspirazioni. Nel bene e nel male, di fatto, D’Annunzio ha interpretato, magari esasperandoli, gli atteggiamenti e aspirazioni assai diffusi della società borghese del suo tempo e, inoltre, ha esercitato una costante influenza, oltre che nel campo strettamente letterario, sul costume pubblico privato di quella società. Così, l’ammirazione per i suoi atteggiamenti e per i suoi scritti è durata vari decenni e anche quando non è più stata nutrita dall’interessato con abili e calcolati colpi di scena, ha dato vita ad una vera e propria moda, che è poi incancrenita in affettazioni e atteggiamenti cari a tutta un’epoca e che si è spesso sovrapposta, fino ad offuscarla, all’immagine del poeta”. [i]
Luci e ombre, dunque.
Tuttavia la chiave di comprensione delle luci e delle ombre è, a mio parere, in quello spazio che racchiude eros e thanatos, nella ossessiva ricerca della “piccola morte” dei molteplici incontri carnali, nella vitalità delle passioni amorose, nelle tensioni ad esse connesse e nella ricerca della vita mediante la sfida alla morte. Il tema della “buona morte” è predominante nell’ultima fatica del poeta e costituisce, probabilmente, il vero filo conduttore di tutta la sua esistenza.
Il tema delle «buona morte» è di stringente attualità, in un’epoca la nostra, dove la morte e divenuta l’innominabile. “Ormai – scrive Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, Bur[ii] – tutto avviene come se né io, né tu, né quelli che mi sono cari, fossimo più mortali. Tecnicamente ammettiamo di poter morire, stipuliamo assicurazioni sulla vita per salvaguardare la famiglia dalla miseria. Ma in verità, in fondo al nostro cuore, ci sentiamo immortali. E non nello spirito. Immortali nella carne.
Fino al Romanticismo la morte è stata un fatto naturale, al quale si è accompagnato un “sentimento molto antico e duraturo e molto consistente di familiarità, … senza paura né disperazione, a metà strada tra la rassegnazione passiva e la fiducia mistica”. [iii]
Alla morte si accompagna il destino, a cui ci si abbandona in una sorta di indifferenza alle “forme troppo particolari e diverse dell’individualità”. [iv]
Già nel secondo medioevo “dal XII al XIV secolo, in cui sono state costruite le basi di quel che diventerà la civiltà moderna, un sentimento più personale più intimo della morte, della morte di sé, traduce l’intenso attaccamento alle cose della vita e anche – è questo il senso dell’iconografia macabra del XIV secolo – il senso umano del fallimento confuso con natura mortale: una passione di essere, un’inquietudine di non essere abbastanza”. [v]
“Nell’epoca moderna la morte, malgrado la continuità apparente dei temi e dei riti, è diventata problematica, e si è furtivamente allontanata dal mondo dalle cose più familiari. Nella sfera dell’immaginazione si è legata all’erotismo per esprimere la rottura dell’ordine abituale”. [vi]
D’Annunzio, allo scoppio del primo conflitto mondiale, sul fronte francese, chiese un salvacondotto per «vedere il grande spettacolo». “L’dea della strage – scrive Piero Chiara – lo esaltava: «mi sembra udire in realtà crollare le masse d’uomini….L’abbattimento è senza pausa».[vii]
Verso la fine del conflitto scrive: «Che farò se scoppierà la pace? Come potrò vivere?», e pensa di farsi frate.
Dopo la fine dell’impresa fiumana e il fallimento del tentativo di dar vita ad un sindacalismo dannunziano ispirato alla Carta del Carnaro, D’Annunzio, “il 23 dicembre [1922], appena ebbe le prime copie del suo libro Per l’Italia degli Italiani, ne inviò una a Pio XI inoltrandogliela a mezzo del cardinal Gasparri, con una strana lettera nella quale si informava il prelato d’essere a buon punto nell’azione che aveva in corso per «liberare della servitù» il Convento dell’ordine francescano di Assisi. Era necessario, diceva, «risollevare lo spirito dell’Ordine e rivendicare la custodia del Santo Sepolcro”. [viii]
Gli echi delle chansons de geste, che narrano delle gesta dei re di Francia, di Carlo Magno, di Rolando, di Guglielmo d’Orange e delle battaglie contro i Saraceni, sono qui ben presenti, in questa sorta di ritiro spirituale dopo la delusione dell’epica impresa di Fiume.
Ben presto la sua crisi religiosa terminerà. «La mia crisi religiosa – scriverà nel 1926 – s’è compiuta con la rinnegazione dell’Iddio di San Francesco». Anche il suo francescanesimo, non esente dalla presenza di Suor Dolcine, rientra in quall’erotismo mistico che si inscrive nello spazio del conoiugio tra eros e thanatos.
Il cavaliere della canzoni di gesta ha come paradigma il ciclo carolingio che ripropone l’archetipo del guerriero alla ricerca della morte eroica. Archetipo che non cessa di agire in D’Annunzio e che incontriamo in: “Le dit du sourd e muet qui fut miraculé en l’an de grace 1266”.
Il cavaliere D’Annunzio non cessa di sognare epiche battaglie, eroiche imprese e una «buona morte».
La morte lo coglierà all’improvviso, al suo tavolo di lavoro. Una «buona morte», anche se non connotata dall’eroismo epico.
D’Annunzio sciamano, mago e profeta
Al tema del Poeta-soldato, del cavaliere alla ricerca della «buona morte», si intreccia quello del Gabriele D’Annunzio mistico, esoterista, sciamano e profeta.
Se i nomi hanno un significato nell’indicare le qualità degli uomini e il loro destino, quello del Poeta evoca l’arcangelo che annuncia. E tale, evidentemente, si riteneva il Vate, come testimoniano gli scritti del valente giornalista e scrittore Attilio Mazza, uno dei massimi esperti dell’opera, della vita e dei segreti di D’Annunzio.
“D’Annunzio sciamano” e il “Mostro e il Mago” ci presentano i caratteri esoterici di Gabriele D’Annunzio e del suo ultimo rifugio: il Vittoriale.
Come scrive Attilio Mazza, rispondendo ad un critico, i particolari poteri di D’Annunzio sono stati testimoniati da numerose persone, da Tom Antongini ad alcuni amici francesi fra cui Philippe Jullian, ma soprattutto da alcune donne che non caddero nella rete tesa dal grande seduttore quali la celebre danzatrice Isadora Duncan e la scrittrice Sibilla Aleramo e addirittura dal medico personale del poeta nel periodo del Vittoriale, dott. Antonio Duse. Dalla ricerca si evince la propensione del Poeta ad un esotismo mistico, propinqui per molti versi allo sciamanismo.
A conclusione del volume D’Annunzio sciamano si legge: “D’Annunzio poeta superuomo, costantemente in primo piano nella scena letteraria, in guerra e nella vita mondana, protagonista di vicende eroiche ed erotiche, finì dunque per negare, con l’atteggiamento da primo attore, la propria sensitività e la propria stessa concezione più alta, pur essendone attratto, in un perenne e ambiguo gioco”. Anche le doti paranormali del poeta sembrano dunque destinate a rimanere un enigma, come egli stesso scrisse, e come citato nel volume: “Chi mai, oggi e nei secoli, potrà indovinare quel che di me ho io voluto nascondere?”. E ancora: “Certo io non vorrò mai raccontare quel che so e che voi ignorate né conoscerete mai. Io ve lo dico senza rancore e senza orgoglio, pacatamente: mai”. “Io ho in me la mia verità, e la mia verità è incomunicabile”. “Io non voglio parlare del mio enigma, né del mio segreto”. “Il mio mondo è un’azione mutua tra gli iddii e me”.
[i] Piero Chiara, “Vita di Gabriele D’Annunzio”, Mondadori
[ii] Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, Bur
[iii] Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, Bur
[iv] Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, Bur
[v] Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, Bur
[vi] Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, Bur
[vii] Piero Chiara, “Vita di Gabriele D’Annunzio”
[viii] Piero Chiara, “Vita di Gabriele D’Annunzio”
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