Archeologia filosofale: la Villa del Casale di Piazza Armerina

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Prologo onirico

Nella ricerca di un luogo dove poter realizzare il mio laboratorio imboccai una strada che, fatalmente, si palesò come la “diritta via”. Percorrendola, con passi certi, giunsi ai piedi di una scala assai affollata, larga alla base e stretta in cima. Erano tanti ad utilizzarla, molti in discesa, tanto che risultò impresa ardua tentare di salirla. Data la sua forma, la gente era fitta in cima e più diradata in basso, cosicché si scorgevano solo i primi tre gradini. Nonostante le spinte opposte riuscì pazientemente a salirla e mi accorsi, giunto in cima, di avere raggiunto un luogo ben più alto di quanto da giù si potesse scorgere e più ancora di quanto si potesse immaginare.

Da lì il panorama era tutt’altra cosa.

L’occhio poteva mirare fiumi e laghi, fertili colline e serene valli, voli ispirati di sublimi uccelli che ricamavano un cielo cristallino in cui regnava un tiepido sole invernale.

Era quello il sito dove avrei edificato il mio eremo, lontano da frastuoni, isolato ancor più perché affollato.

Ora potevo scorgere, nelle tante valli dominate, quanto le civiltà passate avevano lasciato scritto in libri di pietra. Libri che tutti, profanamente, si erano limitati a rinvenire e ad assemblare, come avrebbero potuto fare dei semplici rilegatori ricucendo un libro senza leggerlo.
Dei tanti tomi uno, forse mai letto, si trova nella Valle del Gela e più precisamente nel punto geografico oggi detto Piazza Armerina (EN).

Il contesto territoriale

Non voglio trattare in maniera specialistica della cosiddetta “Villa Imperiale” in Contrada Casale di Piazza Armerina, almeno in questa sede, ma adotto il notissimo sito archeologico come modello per un processo esplicativo di un metodo di ricerca filosofale, dimostrando anche come nessun luogo è deputato a svolgere una funzione per pura casualità.

Quindi, oggi, tralascio l’aspetto prettamente archeologico, di profana importanza, e mi soffermo su quanto d’interesse esoterico.

La scelta di un sito è sempre motivata ed i toponimi originari, con la loro memoria storica, ci parlano delle preesistenze, surrogando la prova documentale, qualora questa non dia sufficiente riscontro.

La “Villa del Casale”, con i suoi messaggi iniziatici immortalati nelle decorazioni musive, non consacrò con la sua presenza il luogo su cui sorse, perché tutta la zona circostante fu considerata sacra a prescindere, forse da sempre.

Per trovare traccia di ciò proviamo ad applicare la mia teoria dei toponimi.

Gli attuali reperti sono emersi alle pendici del Monte Naone, e “Naos” in greco vuol dire “Tempio”.

Questo ci richiama la memoria del Tempio di Hyblaia [1], da cui prese nome il centro di Ibla Erea o Ibla Gereatis, successivamente modificato in Geleatis o Galeotis [2].

Galeoti furono chiamati gli abitanti del luogo che costituirono una corporazione di iniziati dediti all’arte divinatoria. Ma la leggenda li descrive in origine come creature marine che approdarono sulla costa dove sfocia il fiume detto oggi Gela e, risalendo questo, si stabilirono sul Monte Naone [3].

Nel culto di Iblea si assimila sia quello tipico delle divinità telluriche e delle manifestazioni vulcaniche, che quello relativo alla fecondità della terra, la Grande Madre generatrice.

Dunque una dea androgina che racchiude in sé il dualismo cosmico. La via secca, essenza solare e maschile, cioè la conoscenza deduttiva, unita alla via umida, essenza lunare e femminile, cioè la conoscenza induttiva.

Anche nella tradizione popolare locale rimane traccia di una leggenda che lega il sito del Monte Naone con evocazioni di spiriti degli inferi, ricordi fantastici di sacrifici umani per la ricerca di tesori nascosti in una cavità profonda posta in cima al monte [4].

Un’altra leggenda racconta del regno del Monte Naone con un Re di nome Jovàno che uccise e defraudò di tutti i tesori i sette prìncipi che si contendevano la mano della bellissima figlia, la principessa Rubelia.

Oggetti d’oro e preziosi monili con gemme di rara bellezza furono racchiusi in sette forzieri e conservati nei sotterranei del castello sito in cima al monte.

Un giorno, con un boato tremendo, si aprì una voragine da cui fuoriuscì un vapore sulfureo, verdastro, e in essa sprofondarono le sette casse con il tesoro.

Il Re Jovàno, trovato morto, fu riposto in un sarcofago di marmo tanto grande da richiudere la voragine che si era aperta.

Il saggio Mago di corte di nome Turoldo, una notte, sotto le sembianze di un gufo, volò dalla torre in cui aveva il laboratorio e, fermatosi su un ramo di acacia, udì il lamento di sette anime che vagavano intorno al Monte Naone e su di esse sintonizzò il suo cuore.

Poi, di ritorno verso il suo laboratorio, notò di essere seguito da uno stormo di sette colombe bianche che lo accompagnarono fino al castello e lì si accasarono sulla vetta della torre più alta [5].

Anche se può risultare pleonastico, voglio sottolineare i simboli contenuti nella leggenda popolare: il monte e la cavità profonda, la terra, i sacrifici umani, le nozze, la morte della materia, lo zolfo, l’oro, il ripetersi del numero sette, il Mago, il laboratorio, la torre, il gufo, l’acacia, la colomba, il cuore e la sua sintonia.

Quest’ultimo simbolo, altamente iniziatico, dovrebbe risultare familiare a quanti praticano l’esoterismo egizio e si applicano alla Grande Opera.

L’insieme dei simbolismi, dei richiami numerici cabalistici e delle allegorie alchemiche, dopo tutto neanche troppo celate, raccolte in queste leggende popolari ci testimonia come il luogo fu sempre segnato da una sacralità che potremmo confrontare con le rappresentazioni musive della villa.

D’altronde, non lontano dalla Villa del Casale (cinque chilometri in linea d’aria), ed a questa direttamente collegato da una via, troviamo un altro sito archeologico, l’antica Philosophianis, oggi Sofiana, e con i termini “Filosofi” e “Soffiatori” si indicavano i primi alchimisti.

L’etimo composto da philos (amante) e sophos (sapiente) rende ancora più chiaro il nesso logico.

Potrebbero essere sufficienti gli elementi fin qua esposti sul contesto territoriale per guardare la Villa Imperiale non più con l’occhio profano di un turista distratto ma, applicando il metodo dell’ intus-ire  o dell’in-tueri, cioè entrando dentro, penetrando i simboli in essa contenuti.

Alcuni simboli del tappeto musivo: Nodo di Salomone, Fiore della Vita, Croce ansata, Stella a sei punte, ovvero Sigillo di Salomone.

La Villa Imperiale

Il complesso edilizio della Villa del Casale probabilmente fu fatto erigere dalla famiglia imperiale di Massimiano. Sono state fatte altre ipotesi sulla proprietà della Villa ma la cosa certa è che fu costruita tra il III ed il IV secolo d.C., un periodo in cui i miti ed i culti pagani non erano ancora stati soppiantati del tutto da quelli cristiani e, addirittura, il governo di Roma con la conquista dell’isola aveva mantenuto i miti ed i culti originariamente portati nel sud d’Italia dagli Egizi, dai Greci e dai Fenici [6].

Conferma di questa iniziale politica dell’Impero Romano, oltre che nella Villa di Piazza Armerina (EN), la troviamo anche in altri siti siciliani come la Villa di Patti (ME) e la Villa del Tellaro (SR), tutte caratterizzate da decorazioni musive realizzate da maestranze provenienti dalle province romane del nord Africa e dell’Egitto. Il più importante esempio di mantenimento degli antichi culti nel meridione d’Italia forse è Pompei dove si trovano il Tempio di Iside e gli affreschi della cosiddetta “Villa dei Misteri” che ci mostrano sia una iniziazione ai misteri orfici, sia i simboli sacri della religione egizia.

Dallo studio dello schema topografico degli scavi di Piazza Armerina sono riuscito a ricostruire la logica della geometria costruttiva dell’intero complesso.

Lo sviluppo è chiaramente tripolare ed i tre assi di simmetria dei principali corpi del complesso attraversano il centro del grande peristilio, segnato da un punto all’interno dello specchio d’acqua della grande fontana, evidenziandone così anche la sua centralità su tutto l’organismo murario.

Congiungendo i punti baricentrici di questi tre corpi si identifica inequivocabilmente un triangolo, rendendo del tutto atipico l’assetto planimetrico della villa.

Continuando l’analisi dello sviluppo planimetrico e congiungendo gli estremi dell’ambulacro della “grande caccia”, corridoio lungo circa 70 metri, con l’atrio d’ingresso otteniamo un altro triangolo che sovrapposto al primo forma una stella a sei punte o Sigillo di Salomone.

Fonti certe, ed ormai unanimemente confermate, ci dicono che i Romani conoscevano i “Libri Rituales” degli Etruschi ed applicavano le regole in essi contenute nella fondazione delle città e nella costruzione dei templi. Avevano acquisito nella loro tradizione la “disciplina etrusca” basata sulla concezione della suddivisione dell’ordine cosmico in quattro o multipli di quattro [7].

Il principio ternario e quello quaternario sono simbolicamente presenti e leggibili sia in pianta che nelle decorazioni musive.

Questo ci indica che la Villa del Casale può essere considerata come uno scrigno contenente conoscenze iniziatiche poliedriche, non risalenti ad una sola corrente di pensiero, ma espressione sincretica, quasi completa, di tutte le scienze sacre sino ad allora sviluppatesi in oriente e trapiantate in occidente.

Iniziamo la trattazione più dettagliata partendo dall’ingresso monumentale costituito da una porta principale e due laterali fiancheggiate da colonne di marmo, in origine aveva le sembianze di un arco trionfale a tre fornici.

I due pilastri centrali, con nicchie e fonti di acqua da entrambi i lati, costituivano un vero e proprio ninfeo, un luogo sacro alle divinità delle acque.

Il culto delle Ninfe era radicato nella tradizione degli antichi Siculi ancor prima che giungessero le influenze elleniche.

La valle ed il fiume Gela erano onorati e considerati sacri, come riscontriamo anche nella tradizione mitica di Dafni, divino pastore figlio di Ermes e di una Ninfa, abitante sui Monti Erei ed educato dalle Ninfe del luogo, una delle quali gli era anche amante [8].

Attraversando l’atrio con un colonnato poligonale si passa al grande peristilio centrale, il cuore dell’intero complesso, di forma rettangolare leggermente asimmetrica, composto da un porticato con colonne corinzie che delimita un corridoio disimpegnante tutti i principali ambienti della villa.

Il tappeto musivo di questo corridoio presenta vivaci decorazioni e dei medaglioni raffiguranti leoni (fuoco), cinghiali (terra), cavalli marini (acqua), uccelli (aria). Nel simbolismo zoomorfo troviamo celato il principio quaternario ed i quattro elementi primordiali.

Al centro del peristilio la grande fontana ci ribadisce che l’elemento acqua occupa un ruolo di primaria importanza, come a confermare le teorie di Talete, filosofo greco iniziato nelle scuole egizie di Memphis e Tebe, il quale afferma che il principio della materia è unico e risiede nell’acqua [9].

Procedendo in senso antiorario, sul primo lato del peristilio troviamo l’ingresso del portico ellittico e della sala tricora. Quest’ultima è composta da un grande ambiente quadrato (mt.12 x 12 circa) absidato su tre lati e dedicato interamente alle mitiche gesta di Ercole, raffigurate nelle decorazioni musive del pavimento.

Ecco, ritorna la rappresentazione simbolica del quaternario (ambiente quadrato) e del ternario (le tre absidi) che, combinati, ci danno il numero dodici, e dodici sono anche le fatiche di Ercole.

Nel mito di Ercole (Heracles), il più importante degli eroi greci, sono trasferiti due concetti distinti. Da un lato l’uomo che, per propria virtù, assurge a possibilità portentose e, procedendo sul sentiero iniziatico, si deifica al punto da immolare la sua materia e liberare il suo spirito verso l’Olimpo.

Dall’altro simboleggia l’eterno ciclo cosmico di cui le dodici fatiche corrispondono alle dodici “case” del sole.

Molti altri sono i riferimenti mitologici presenti nella Villa del Casale, troppi per poterli illustrare dettagliatamente in questo scritto. Basta elencare gli emblematici archetipi della mitologia antica come Orfeo, Eros e Pan, Ciparisso, Arione, Dafne, Ambrosia, la Fenice, Ulisse e Polifemo, ecc., per invitare i lettori a visitare, o rivisitare, il sito archeologico facendone oggetto di profonda meditazione, anche ripercorrendo l’esperienza in chiave Junghiana. In fondo anche Carl Gustav Jung si interessò di archetipi e di alchimia.

 

[1] Litterio Villari, Storia della Città di Piazza Armerina, Piacenza 1977, pag. 56

[2] Emanuele Ciaceri, Culti e Miti nella storia dell’antica Sicilia, Catania, pag. 16 e segg

[3] E. Ciaceri, op. cit., pag. 20

[4] L. Villari, op. cit., pag. 56

[5] Tratto dalla legenda “Il tesoro del Monte Naone”, pubblicata sul sito web: www.piazzaarmerina.org

[6] E. Ciaceri, op. cit., Prefazione

[7] Maria C. Ruggieri Tricoli, Acropoli e Mito, Palermo 1979, pag. 28

[8] E. Ciaceri, op. cit., pag. 242

[9] R. Allendy, Alchimia e Medicina, Roma 1985, pag.58

 

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